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venerdì 4 settembre 2015

Come lupi nella notte, in attesa dell’aurora



di: Mario Michele Merlino


Dalla piccola stazione di Réthondes, nella foresta di Laigle, ad una decina di chilometri da Compiègne, nel dipartimento dell’Oise, partiva un binario che si biforcava all’interno del bosco. Qui si incontrarono le due delegazioni, il mattino dell’8 novembre 1918, quella degli alleati guidata dal maresciallo Ferdinand Foch e quella tedesca dall’ex ministro Matthias Erzberger. Le condizioni imposte, non negoziabili, erano qualcosa di più che l’inesorabile iato tra i vincitori, tronfi del successo, e i vinti, umiliati e dimessi. 
Era la vendetta in chiave di diritto di guerra, il primo passo per le tragedie successive (comprendenti, va da sé, l’esaltante pur se breve avventura del Fascismo europeo!). Alle 5,30 dell’11 novembre – ‘una livida alba d’autunno’ – il testo dell’armistizio venne firmato dalle due parti. Già dai primi del mese prendendo le mosse da Kiel, il porto più importante della Germania, dove erano ancorate le navi della Kriegsmarine, l’ammutinamento dei marinai, la solidarietà degli operai dei cantieri, le donne e i bambini, bandiere rosse e pugni chiusi (si rilegga l’inizio de I Proscritti di Ernst von Salomon), si diffuse in tutto il resto del paese. Il giorno 9, alle due del pomeriggio, a Berlino, dal balcone del Reichstag il deputato socialdemocratico Philipp Scheidemann improvvisa un discorso davanti alla folla in tumulto, proclamando la nascita della repubblica. 
La sera stessa il Kaiser Guglielmo II prendeva la via dell’esilio dopo aver rimesso la carica di Cancelliere nelle mani dell’ex sellaio Friedrich Ebert, capo riconosciuto del socialismo tedesco. Era la vergogna di novembre (November-schande, come la definì Adolf Hitler), avvertita dai soldati in armi quale Dolchstoss (pugnalata alle spalle). Soprattutto, quando rientrando in patria avvertirono il loro sacrificio deriso e offeso. E, allora, portarono il filo spinato la trincea le bombe a mano il senso virile del cameratismo e se ne fecero bandiera – la vecchia bandiera bianca nera e rossa – da opporre a quanti l’avevano calpestata…



Le notizie di quel novembre, cupo, così improvvise e dissacranti giunsero fino all’ospedale della cittadina di Pasewalk in Pomerania, dove giaceva al riparo da ogni raggio luminoso il Gefreiter (di prassi lo si definisce caporale anche se il termine più esatto indica un soldato scelto) Adolf Hitler. Nella notte del 14 ottobre il reparto in cui militava, 7° compagnia del 16° reggimento bavarese di fanteria di riserva, venne bloccato da uno sbarramento britannico su una collina a sud di una località di nome Werwick. 
Nell’occasione gli inglesi adoperarono un gas capace di produrre gravi irritazioni agli occhi e alle vie respiratorie. Alcuni commilitoni vi rimasero uccisi, ‘verso il mattino – come egli stesso racconta – anch’io fui preso da dolori… alcune ore più tardi i miei occhi erano come tizzoni ardenti, e tutto intorno a me s’era fatto il buio’. L’esperienza del fronte e le modalità della resa rimarranno incise per sempre. Mentre molti degli altri ricoverati attendevano la fine della guerra – e molti ne gioivano –, egli s’illudeva ancora nella vittoria possibile, in una resa onorevole nel peggiore dei casi. ‘… all’improvviso e senza alcun segnale d’avvertimento, la tragedia si abbattè’.
Dopo il fallito attentato del 20 luglio del ’44 ad opera degli ufficiali per eliminarlo e giungere – illusi – ad un accordo con gli alleati e, magari, combattere al loro fianco contro i sovietici, la repressione si rese feroce e spietata tramite liste di proscrizione tribunali del popolo il filo d’acciaio del pianoforte per eseguire molte delle condanne a morte. Di suo pugno egli cancellò il nome dello scrittore Ernst Juenger, capitano a Parigi, pur se il suo reale coinvolgimento appare marginale, memore dell’eroe della Grande Guerra e autore, fra l’altro, di Tempeste di acciaio (In Stahlgewittern). 
Pagava così il debito alla Kameradschaft, allo spirito della trincea, al cameratismo, a chi, come Juenger appunto, ne aveva scritto in risposta a tutti coloro che, si pensi A niente di nuovo sul fronte occidentale di Remarque, ne avevano tratto note dolenti e sofferte, scadendo in un pacifismo vile e di maniera. Simile al poeta Rainer Maria Rilke, che annunciava l’indissolubile ‘identità tra terrore e piacere’, così il giovane tenente di un plotone del 73° fucilieri d’Hannover rammentava come ‘avevamo lasciato aule universitarie, banchi di scuola, officine; e poche settimane d’istruzione militare avevano fatto di noi un sol corpo bruciante d’entusiasmo. Cresciuti in tempo di sicurezza e tranquillità, tutti sentivamo l’irresistibile attrattiva dell’incognito, il fascino dei grandi pericoli. La guerra ci aveva afferrati come un’ubriacatura’. E, al termine del conflitto, egli poteva annoverare venti ferite e vantare la più alta decorazione, la Pour le Mérite…
Furono i reduci della Grande Guerra l’ossatura del Fascismo in Italia con lo squadrismo e in Germania con le ‘squadre d’assalto’, le S.A.. Erano uomini che non avevano dismesso lo spirito di gruppo la coesione che si determina sulla linea di fuoco il fango i pidocchi la sfida; forse avevano acquisito una certa brutalità (lavacro purificatore quale lievito della storia), strafottenti e irridenti il sangue e la morte, propria e dell’avversario. La cosiddetta ‘terra di nessuno’ s’era trasformata, assalto dopo assalto, in una nuova e al contempo antica patria, la Heimat, da amare possedere conquistare. 









Ebbero giovani capi, sovente i medesimi ufficiali del fronte, che li condussero alla vittoria. Poi ‘la politica’ li mise da parte li relegò dietro le quinte (si legga, ad esempio, Il soldato postumo di Marcello Gallian) … ma questa è altra narrazione, legata alle necessità agli accordi alle istituzioni al realismo del presente con qualche compromesso di troppo e forse troppo sovente (che non sempre paga e il Fascismo italiano lo conobbe bene con il 25 luglio prima e con la mattanza del 25 aprile nel suo epilogo tragico ed esaltante).
(Divagazione sul tema o quasi. Inverno del 1983. Vado con Sandro al cinema Gioiello a vedere il film Rambo con Sylvester Stallone. Il reduce dal Viet-Nam con i suoi incubi la solitudine l’emarginazione e il rifiuto della società americana di farsi carico della sconfitta. La reazione contro il sopruso e la battaglia contro lo sceriffo ottuso e la cittadina simbolo della sua esclusione. Poi, nelle sequenze finali, il rottame psichico il pianto il bambino a cui è stato sottratto il giocattolo. Il soldato americano… Uscendo al termine della proiezione, ci assalgono le immagini le vecchie fotografie i fogli ingialliti i resoconti le testimonianze il BL 18 che corre su strade sterrate gli squadristi in camicia nera bastoni e bombe a mano, i canti e il fiasco di vino che passa di mano oppure la pioggia che scorre fitta e continua, cielo grigio mura grigie di anonimi caseggiati di quartieri popolari di Berlino, il ‘rosso’ Wedding, e gli uomini dei Freikorps in armi nella patria tradita. Altri tempi, si dirà, no, altra razza…).
Negli anni del conflitto, raccontano testimoni e lo riconoscono gli storici, Adolf Hitler fu un uomo felice e un soldato coraggioso. E, aggiungiamo, fortunato. In più occasioni fu sfiorato dalla morte tanto che si fece in lui tenace convinzione d’essere protetto da un destino superiore. Vi doveva essere una ragione precisa, un motivo ancora oscuro e non definito, ma egli era sicuro di rappresentare, come ebbe a dire nel 1938 ‘uno degli strumenti della Provvidenza’. (L’uso che egli fece del termine per indicare il suo ruolo nel superiore e grandioso disegno della storia non va confuso con quanto proposto dalla dottrina cristiana, qui vi aleggia l’antico, primordiale, dominante Fato di cui i greci disvelarono la presenza). Se il fronte aveva dato un senso alla sua esistenza, accanto al vivo sentimento mai dimentico dell’arte, la fine della guerra – e il modo come s’era verificata – gli ‘impose’ di restare nella Reichswehr, assegnato al campo di Traunstein – già destinato ai prigionieri russi – a circa cinquanta chilometri da Monaco.
La capitale della Baviera era, insieme a Berlino, il laboratorio di quel caotico mondo di conflitti che stava attraversando la Germania, fra le spinte estreme sul modello del Soviet, il pangermanesimo (si pensi alla Società di Thule) e tanta utopia, di sanguinosi accadimenti resi famosi dall’espressione der Krieg nach dem Kriege (dopo la guerra, la guerra). Il soldato sconosciuto Adolf Hitler scoprì, allora, una doppia vocazione di cui egli stesso fa rivelazione: ‘Ich aber beschloss, Politiker zu werden’ (come già s’era detto quando ancora giaceva nel letto d’ospedale, ‘decisi di darmi all’attività politica’). Inviato dal comando militare, a tenere sotto controllo i vari movimenti politici, egli – la sera del 12 settembre 1919 – partecipò in incognito ad una riunione del DAP (Deutsche Arbeiterpartei), il partito dei lavoratori tedeschi guidato dal meccanico delle ferrovie Anton Dexter nel retro della birreria Sterneckerbraeu. Quel piccolo partito, alla riunione vi erano meno di quaranta persone, sarebbe divenuto nelle mani dello stesso Hitler i partito nazionalsocialista. La seconda vocazione, una sorta di naturale magnetismo, applicato con innovative tecniche di propaganda e alla coscienza del compito assegnatogli dal destino, con cui avrebbe affascinato un popolo intero e dato un volto nuovo alla Germania, fu di saper dominare con la parola chiunque gli fosse di fronte, uno cento mille milioni di ascoltatori. ‘Ich konnte reden! (sapevo parlare!).


Non citerò, per l’ennesima volta, il Platone delle Leggi – certo, però, che a Monaco, in quei mesi, anni di un dopoguerra apparentemente senza fine ebbe inizio quell’avventura, con i suoi errori e orrori compresi, che avrebbe segnato la storia d’Europa e, fra le macerie di Berlino, maggio ’45, la sua fine (così l’interpretava Adriano Romualdi e, al contempo, ne auspicava la rinascita). E, nel novembre del ’23 (forse ne scriverò in seconda battuta), il ‘fallito’ putsch con i suoi sedici caduti sotto il fuoco della polizia alle spalle della loggia dei marescialli (la Feldherrnhalle). Eppure quello scacco fu anch’esso un inizio – stupore degli dei risorti in armi.
Circondatosi di ex commilitoni, di uomini con il fronte nella mente e nel cuore, egli li pensò li volle li portò in battaglia ‘veloci come levrieri, resistenti come il cuoio, e tenaci come l’acciaio Krupp’. Un branco di lupi nella notte, ululanti alla luna, in attesa dell’aurora germanica…

1 commento:

  1. anche steiner partecipò alle "trattative" alla fine della grande guerra, propose la sua antroposofia e la triarticolazione sociale per ricostruire un'europa giusta su una base spirituale ed ancestrale, non fu ascoltato, come altri, ma il piano che comprendeva la seconda guerra e la terza era già stato scritto da decenni, esattamente come la distruzione culturale e spirituale grazie ad una completamente inutile politica di immigrazione, l'unica speranza è l'insorgere di quei popoli ancora non corrotti che stanno fra la russia bianca ad est, la germania l'austria l'ungheria e parte dell'italia. Solo questi hanno la possibilità la cultura la necessità e l'esperienza per fermare questo disastro che porterebbe un salto all'indietro di secoli.

    jj

    non sarà vana attesa perchè come dice il titolo molti sono:
    Come lupi nella notte, in attesa dell’aurora

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