di: Mario Michele Merlino
Annotava il
Cancelliere Otto von Bismarck, con l’usuale ironia del grande statista e
con la tipica vena di disprezzo degli Junkers prussiani, come fosse
‘inevitabile che i tedeschi parlino male del governo di fronte ad un
boccale di birra’. Se lo poteva permettere dopo aver ‘imposto’ al Re di
Prussia, Guglielmo I della dinastia degli Hohenzollern, la costituzione
del II Reich e il titolo d’Imperatore (il Kaiser), consapevole che ‘le
questioni più importanti della nostra epoca verranno decise non dai
discorsi o dalle risoluzioni delle maggioranze…
ma col sangue e col
ferro’.
E, appunto con l’uso delle armi, prima contro il piccolo regno
di Danimarca, strappandogli i ducati dello Schleswig e Holstein, poi
picchiando duro nella battaglia di Sadowa (3 luglio 1866) contro gli
Asburgo e l’ingerenza di costoro nella Confederazione tedesca e infine
umiliando la Francia che, fino ad allora, si considerava la potenza
egemone sul Continente, cingendo d’assedio Parigi, incoronando il
sovrano nella sala degli specchi di Versailles, oltre ad annettersi le
province dell’Alsazia e della Lorena. E, prossimo alla morte (avvenuta
il 30 luglio del 1898), aveva intuito che ‘la grande guerra d’Europa
scoppierà per una qualche maledetta follia avvenuta nei Balcani’.
Cancelliere Otto von Bismarck
Già, la Grande Guerra e le sue
conseguenze, quelle che, ad esempio, lo storico Ernst Nolte definisce
quale ‘guerra civile europea’ (dopo contrasti anche aspri è termine che
s’è fatto largo nel lessico storiografico), la stagione del
totalitarismo dei fascismi e quant’altro, come il bolscevismo. L’un
contro l’altro armati e, al contempo, con tante similitudini. (In fondo
il Fascismo italiano conservò sempre l’originaria vocazione verso il
socialismo e un confronto tra nazionalsocialismo e bolscevismo è
operazione tentata proprio dallo stesso Nolte). Le idee e gli
accadimenti e gli scenari, tutti dal carattere universale, planetario
per dirla con il filosofo Martin Heidegger, la tecnica e le masse, Stato
e Nazione, il socialismo reale, l’uso e l’abuso del termine
‘rivoluzione’ – la lucida intuizione di Bismarck, il 28 di giugno del
1914 a Sarajevo tra il caso e la necessità (l’attentato all’arciduca
Francesco Ferdinando e a sua moglie Sofia Chotek fu una somma di
coincidenze avverse di cui, credo, facemmo riferimento in altro
intervento) e – con o senza l’autorevolezza di Hegel – una spirale dove
le cause (se esistono) si assommano alle conseguenze (se esistono).
E una birreria, confrontandoci con
l’affermazione iniziale, boccali di vetro spesso da tracannare, i tavoli
di legno grezzo allineati in una sala per tremila posti, adatta a
conferenze e riunioni, un ampio giardino con alte piante ad ombreggiare
nei giorni afosi d’estate tutto attorno, sulla riva meridionale
dell’Isar, a Monaco.
Quando vi andai nell’estate del ‘68, anno di
sconvolgimenti e di tentativi di dare al progetto rivoluzionario una
estensione politica e geografica, la Buergerbraeu (impropriamente
definita Keller, cioè cantina, come è in uso per ogni birreria) era
ancora lì, ben visibile e in funzione; poi, nel 1979, venne demolita non
so con quale risibile motivazione. L’ordine è tassativo: rimuovere ogni
traccia della memoria e trasmettere di generazione in generazione ‘il
senso della colpa’). E con Silvio, oggi architetto e vicino al Dalai
Lama, ci sedemmo proprio nel giardino con un boccale di Loewenbraeu
chiara e dopo aver visto il luogo ove prese il via il Putsch del ’23.
Era la notte dell’8 novembre quando
Hitler giunse alla birreria con un contingente di Stosstrupp (premessa
delle future S.S.), seguito dagli uomini della S.A. (Sturm Abteilung)
con una mitragliatrice, interrompendo la riunione indetta dai massimi
esponenti civili e militari del governo bavarese. Di fronte alle
rimostranze, alla confusione creatasi, al timido tentativo di
resistenza, al vociare scomposto e vano, egli si aprì la strada, pistola
in pugno e sparando un colpo al soffitto. Ogni storia ha un inizio…
(‘Il futuro della Germania sarebbe stato deciso in una birreria’, come
scrive lo storico Richard Hanser, in un saggio malevolo, va da sé, ma
ricco di annotazioni – noi, spiriti liberi, cerchiamo negli spazi
bianchi le alternative nascoste – per raccogliere suggestioni atmosfere e
quell’aneddotica di cui ognuno di noi fa parte).
Poi la decisione di
marciare verso il centro della città –‘Wir marschieren!’, aveva
dichiarato senza appello il feldmaresciallo Erich Ludendorff e nessuno,
anche il più dubbioso ebbe il coraggio di contraddire l’ordine. Duemila
uomini, la bandiera con la svastica e quella nera-bianca-rossa
dell’Impero avanti, in file da otto uomini – Hitler e Ludendorff in
testa -, armi in spalla elmetti divise della Grande Guerra.
Tutti
condividevano – o almeno la gran parte di loro – l’esperienza del fronte
e potevano far propria l’affermazione di Ernst Roehm, che di quei
reparti era stato l’animatore abile e infaticabile: ‘L’Europa – e il
mondo – possono andare in fiamme. A noi cosa importa? A noi interessa
solo che la Germania possa vivere ed essere libera’. E, dunque, avanti a
conquistare la Baviera per poi muovere la ‘Marsch auf Berlin!’,
spazzare via dalla capitale tutti i traditori di novembre i corrotti i
giudei i politici tronfi di sè…
Berlino, la città odiata dal resto della
Germania (tuttora poco amata), la città che aveva visto proclamare la
repubblica e combattere nelle strade gli uomini dei Freikorps, tutti
coloro che la divisa s’era resa condizione interiore, divenuta sangue e
carne ed ossa, che andavano cercando la Patria perduta (da I Proscritti
di Ernst von Salomon si leggano le pagine lucide e appassionate che li
descrivono), e di contro gli uomini e le donne dello Spartakusbund,
l’ala estrema, la costola eretica del socialismo tedesco e innamorata
della rivoluzione bolscevica, chiamati allo sciopero generale e alle
barricate.
Dal 4 gennaio del 1919 al 15 lo scontro fu, come scriveva un
volantino, ‘die Stunde der Abrechnung naht!’ (l’ora della resa dei conti
è prossima), a colpi di mitragliatrice moschetti bombe a mano. Il
governo diede incarico al ministro della difesa Gustav Noske di
annientare il movimento e l’ordine fu eseguito lasciando sul selciato
oltre cento spartachisti e una ventina di militari. A cadere assassinati
anche Karl Liebknecht – l’unico deputato socialista a votare contro la
guerra al Reichstag -, animatore della Lega di Spartaco, e la sua
compagna Rosa Luxemburg, piccola e minuta, ma capace d’incendiare gli
animi dei lavoratori, riversando su di loro tutto l’odio verso la
borghesia.
Stessa sorte, pochi mesi dopo, ebbe la
Repubblica dei Consigli di Baviera – breve la sua esistenza dai primi di
aprile al 2 maggio, sempre del 1919 -. Anche qui Gustav Noske seppe
raccogliere, ancora una volta, quei veterani per cui la guerra non s’era
mai conclusa. Uniti da una sola convinzione come solo con le pallottole
avrebbero ridotto alla ragione i ‘democratici’ d’ogni risma e colore. E
così fecero, muovendosi su Monaco e –‘an die Wand gestellt’ – messi al
muro tutti quei rivoltosi che cadevano nelle loro mani. La rivoluzione
su modello bolscevico veniva stroncata ‘col sangue e col ferro’ – e non
le sarebbe stata data altra occasione -, mentre all’orizzonte andava
delineandosi la rivoluzione delle camicie brune. Anche questa con un
esordio disastroso, eppure… Gli uomini e la loro statura faranno sempre
la differenza.
Ecco, dunque, nella mattina del 9
novembre, la colonna dei nazionalsocialisti avviarsi e raggiungere il
centro della città, superando un primo sbarramento di polizia sul ponte
Ludwig sull’Isar. La meta è liberare Ernst Roehm e i suoi uomini che,
asserragliati nel quartiere generale del distretto militare, sono tenuti
sotto scacco dal Reichswehr. Raggiungere, dunque, la centrale Odeon
Platz, presidiata da ingenti forze di polizia con autoblindo e armi
automatiche, costretti a passare dal di dietro della Feldherrnhalle,
lungo la stretta Residenz strasse.
Qui, alle 12,30 in punto, da un
plotone di polizia, che sbarrava la strada ed era deciso ad impedire il
proseguimento della marcia, partì un primo colpo d’arma da fuoco per poi
proseguire dall’una e dall’altra parte. Fra i primi a cadere fu
Scheubner-Richter, un profugo baltico, al cui braccio era Hitler che fu
trascinato a terra tanto da slogarsi la spalla sinistra ma salvando la
vita. Nello stesso momento Ulrich Graf, la sua guardia personale, si
buttò su di lui proteggendolo con il suo corpo massiccio e ricevendo
numerose ferite. Solo Ludendorff non si scompose ma attraversò indenne
la linea di fuoco e fu preso in consegna da un agente di polizia. Così,
poche ore dopo, alle 15 si poteva annunciare come il Putsch fosse
fallito.
Il seguito è noto. Unanime il
convincimento che la carriera politica di Hitler era miseramente
terminata nel momento in cui la polizia l’aveva arrestato e, dopo il
processo, gli si erano aperte le porte della prigione di Landsberg, a
circa sessanta chilometri da Monaco. Commenti politici si accompagnarono
alla derisione per quel tentativo così fragile e sprovveduto, da
operetta, da birreria. Fu invece lo stesso Hitler ha definire ‘la più
grande fortuna della mia vita’ quanto era successo e i fatti successivi
sembrarono confermare come il destino lo avesse prescelto per dare alla
Germania il volto nuovo della riscossa e della potenza…
Fu proprio il
processo a mettere in risalto, su scala nazionale, la straordinaria,
magica capacità oratoria – una linea di attacco senza alcun tentativo di
giustificarsi – e, in cella, dettare a Rudolf Hess il Mein Kampf. E il
ricordo indelebile di quel tentativo, ogni anno, l’8 novembre alla
Buergerbraeu per tenere un discorso ai ‘vecchi combattenti’ e, il giorno
successivo, a ripercorrere lo stesso cammino di allora con alla testa
del corteo la sacra bandiera dalla croce uncinata, la Blutfahne, bagnata
dal sangue dei camerati uccisi, con la quale passare la consegna ai
nuovi stendardi. Il lupo e l’aurora… E, come ogni aurora, il tramonto di
fuoco il 30 aprile del ’45 nel bunker di Berlino, simile ad una tana
come ogni tramonto si rinnova con altra aurora a venire… In attesa nella
notte.
fonte: ereticamente.net
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