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martedì 9 giugno 2020

La Sapienza Vedica

 

di: Luigi Angelino 

Accingersi ad una trattazione del genere, obbliga lo scrivente ad una precisazione di carattere eziologico, significando che la presente sintesi, in considerazione della vastità e della complessità delle tematiche affrontate, cerca di offrire spunti significativi per un successivo approfondimento nei settori di interesse. Quando si fa riferimento ai libri “Veda”, si intende parlare di un’antichissima raccolta di testi, scritta in lingua sanscrita da parte dei popoli “Arii” (1) che colonizzarono l’India settentrionale, divenuta nel corso dei secoli il compendio di quel complesso di dottrine e di credenze religiose denominato “Induismo”.


Lo stesso termine di origine sanscrita (lingua indoeuropea come il latino ed il greco) “veda” può essere tradotto con espressioni moderne come “sapere”, “conoscenza”, o anche “saggezza”, corrispondendo all’avestico “vaedha” ed al greco antico “oida”, considerando che in questa lingua, nel periodo arcaico, era presente il “digamma” con suono “v” e che quindi si leggeva “voida”. Gli studi ufficiali ritengono che la letteratura vedica risalga ad un periodo compreso tra il 2300 ed 2100 a.C., quando gli Arii emigrarono verso l’India settentrionale, allora chiamata “Terra dei sette fiumi”, provenendo da un’area geografica più o meno corrispondente all’attuale Afghanistan settentrionale. Quasi in contemporanea, un’altra ramificazione del predetto popolo, gli “Iranici”, invase il territorio dell’odierno Iran, fondando un’altra tipologia di letteratura religiosa che farà parte della raccolta dell’ “Avesta” (2), il libro sacro dello Zoroastrismo. Ricostruire gli elementi fondamentali delle credenze di queste antiche popolazioni non è stato molto semplice, anche se gli esegeti hanno individuato nello “Rta”, la legge cosmica, il principio primordiale su cui si basava la loro dottrina (3).





Come si diceva in apertura, l’esatta datazione dei Veda costituisce un argomento molto controverso, anche se gli studi più accreditati la collocano intorno al ventiduesimo secolo a.C., con un’ampia estensione di composizione durata più di mille anni, fino all’undicesimo secolo. Qualche teoria minoritaria individua l’inizio dell’elaborazione dei Veda intorno al sedicesimo secolo a.C., considerando gli Indoari una popolazione parzialmente autoctona. Entrambe le teorie indicano più o meno l’anno mille a.C. come periodo di completamento della vasta opera. Non mancano autorevoli studiosi che ritengono il libro sacro induista di gran lunga più recente, riferendo di una probabile stesura tra il sedicesimo ed il quinto secolo a.C..

Di seguito ci soffermeremo sulle ipotesi che datano la più antica composizione dei Veda in un’epoca molto più antica, addirittura intorno all’8000 a.C., come retaggio di un’antica civiltà scomparsa, le cui tracce sono riscontrabili, in diverse forme, nei racconti mitologici di popolazioni sparse nei più lontani territori del nostro pianeta. Passando ad una veloce analisi dei testi che compongono la raccolta vedica, seguendo il filone interpretativo tradizionale, si ritiene che la parte più antica sia rappresentata dal “Rgveda”, a cui poi seguirono altri tre “libri”: “Samaveda”, “Yajurveda”, “Atharvaveda”. Nel particolare, questi testi ci offrono anche un quadro storico degli “Indoari”, descritti come nomadi guerrieri impegnati in sanguinosi conflitti con le etnie locali, definite come eredi della “Civiltà della valle dell’Indo”. 

I “Veda” ci presentano le popolazioni originarie di quei luoghi, come stirpi dalla pelle scura, chiamate “dravidiche” con il moderno linguaggio tassonomico, mentre gli autori, gli Indoari, definiscono sé stessi “arya” (nobili). In più, i testi raccontano che i riti religiosi furono introdotti dagli invasori, in quanto gli indigeni non avrebbero venerato divinità vere e proprie, limitandosi all’adorazione di un “fallo” eretto, in sanscrito denominato “lingam”. Alcuni studiosi hanno evidenziato la conferma della veridicità di tali narrazioni, dopo la scoperta nella valle dell’Indo di oggetti dalla forma fallica, considerati peraltro segnali anticipatori del successivo culto del “Lingam” che si diffonderà nella dottrina shivaista (4). Se vogliamo distinguere il contenuto essenziale dei quattro testi vedici, partiamo innanzitutto dal “Rgveda”, l’opera letteraria indoeuropea più antica a noi pervenuta. Il testo si compone di ben 1028 inni, chiamati “sukta”, traducibile in “ben detto”, a sua volta formati da 10462 strofe in diversi stili metrici, a cui è stata attribuita la denominazione di “mantra”, o quella di “rks”, ossia “versetto”, “invocazione”. 


Gli inni menzionati sono suddivisi in dieci libri, chiamati “mandala” (cicli), ciascuno di ampiezza, struttura e datazione a sé stante. Si tratta, pertanto, di un insieme di insegnamenti compositi, nati dalla tradizione culturale degli Indoari, senza alcuna preoccupazione di resa editoriale. Nel “Rgveda” sono contenute numerose testimonianze del culto sacrificale degli Arii, con costanti riferimenti alle divinità di Agni, Rta-Varuna e Soma, a cui si aggiungono i successivi inserimenti di entità guerriere, come Indra, il dio del fulmine (5). Il secondo testo, il Samaveda, trae origine direttamente dal Rgveda, consistendo in 1875 strofe, di cui molte sono ripetizioni della raccolta sacra precedente. Si tratta di un insieme di “mantra” cantati da un sacerdote e dai suoi tre assistenti, pervenuto ai nostri giorni in differenti versioni, anche se la più nota è quella che distingue due raccolte: il “Purvacika”, formato di 585 inni, suddivisi in quattro sezioni e lo “Uttarachika”, in cui si raggruppano 400 canti rituali da recitare al suono di peculiari melodie. Il terzo testo, lo “Yajurveda” riassume, in pratica, l’intero sistema rituale vedico, riportando distinte formule attinenti ai sacrifici, sia sotto forma di litanie che di inni. Dello “Yajurveda”, se ne dispongono due versioni quella “Krsna” (nera) e quella “Sukla” (bianca). E’ un testo elaborato in parte in prosa ed in parte in poesia, rappresentando la più antica opera letteraria in prosa redatta in lingua sanscrita. Di grande importanza è anche il quarto testo, l’ “Atharvaveda”, che si presenta come un trattato sulle formule magiche e sulla medicina. In realtà è una raccolta molto particolare, in quanto contiene sia formule positive (atharvan) che negative (angirga), molto diffusa nell’ambiente popolare. All’inizio l’Atharvaveda non fu considerato sacro, ma poi fu compreso nella letteratura religiosa, diventando perfino un autorevole manuale di riferimento per i “brahmani” (6).

E’ necessario chiedersi a quale tipo di conoscenza i “Veda” possano riferirsi. Come abbiamo visto in precedenza, il termine “veda” può essere tradotto come “conoscenza” o “saggezza”. Non si tratta, tuttavia, di una conoscenza teorica, ma di una forma di conoscenza fondata sulla percezione, a cui l’uomo si avvicina nello stato di pura coscienza. La sapienza vedica si basa, dunque, sulla libertà e sull’intelligenza creativa dell’essere umano. E’ indicativo come gli autori abbiano sottolineato che nei Veda si possa intravedere sia l’ispirazione divina che l’elaborazione umana, attribuendo ad essi una duplice denominazione: “nitya” (eterni) ed “apauruseya” (inventati dall’uomo). I seguaci dell’Induismo, con un’immagine di grande poesia, tipicamente orientale, definiscono i “Veda” come il respiro di Dio, da cui deriverebbero, per mezzo di molteplici suoni divini, i mantra da recitare. Seguendo la concezione vedica, l’Universo sarebbe formato da cinque elementi o stati della materia, derivanti dallo squilibrio primordiale nella forma del suono OM (7). Pertanto il suono rappresenterebbe l’energia primordiale, con la capacità di concretizzarsi nella realtà sensibile. La sapienza vedica attribuisce molta importanza alla tensione uniforme degli opposti, una forma di “simmetria assoluta” che darebbe luogo ad un meccanismo oscillatorio formato da tre fasi diverse: la propulsione, la resistenza ed il punto di equilibrio (rajas, tamas e sattva in sanscrito). Da questi tre momenti iniziali, si formerebbero i cinque elementi (etere, aria, fuoco, acqua e terra), nell’ordine crescente di densità. La sequenza descritta determinerebbe il fatto che l’elemento meno denso, l’etere, sarebbe racchiuso in tutti gli altri elementi, costituendo stati vibrazionali della materia in stretta connessione con i nostri sensi. E’ importante sottolineare un altro principio della conoscenza vedica, in relazione all’elemento dell’etere, da non assimilare al significato del “vuoto”, ma al substrato che permette agli altri elementi di esistere, in pratica una specie di contenitore che permetterebbe alla vibrazione primordiale di esistere e di generare l’intero universo. 

A tale proposito, è stato osservato che l’udito è proprio il primo dei cinque organi di senso che comincia a svilupparsi nel corso della vita fetale, rappresentando, pertanto, la prima possibilità di contatto con l’esterno. Da questa constatazione, alcuni studiosi ritengono che gli altri organi di senso riescano a svilupparsi elaborando le informazioni uditive. La moderna fisica ha confermato scientificamente l’intuizione degli antichi autori dei “Veda”, stabilendo che la realtà è intrinsecamente formata da vibrazioni. 

Secondo la Teoria delle Stringhe, nella meccanica quantistica, è appunto lo stato vibrazionale di una stringa che incide sulle proprietà della materia. Per questa teoria, le forze fondamentali della natura si identificano in particelle come delle corde, stringhe appunto, monodimensionali e vibranti, infinitamente piccole che si propagano nello spazio ed interagiscono fra loro, formando la rete della realtà sensibile (8). E’ incredibile riscontrare che una visione simile era presente già nell’antichità: nei sistemi di conoscenza tradizionali, infatti, il suono e la parola sono collocati all’origine dell’universo (confronta ad esempio la “parola” creatrice di Jahvè nella religione ebraica).



Gli studiosi del pensiero Orientale hanno considerato la letteratura vedica, come una specie di progresso dal panteismo naturalistico ad un pensiero più maturo e strutturato. Nei quattro antichi libri, è già possibile intravedere alcuni principi della metafisica induista successiva, anche se non mancano teorie che si riferiscono ai Veda come al compendio di una sapienza molto più arcaica. L’autore Aurobindo (9) interpreta i “Veda” in chiave ermetica, come la veste “essoterica” di una conoscenza “esoterica” più profonda riservata solo a pochi, ammantandosi di simboli che si riassumono in azioni liturgiche e sacrificali che, per certi versi, ricordano i misteri eleusini di ambiente ellenico. In particolare, vorrei accennare al rituale del “Soma” (10) che, nel suo aspetto più materiale e sensibile, consiste in una bevanda ottenuta dalla spremitura di una sostanza vegetale, così come descritto dal “Rig-Veda”. Si tratterebbe di una pianta che produceva un succo di colore scuro, i cui residui venivano poi risciacquati per estrarre la parte restante della stessa pianta. 

A ciò si aggiungeva una filtrazione mediante uno strato di pelo di pecora ed il succo veniva poi bevuto, a volte da solo, a volte con una miscela di latte o di miele. Gli esegeti hanno inteso la pianta appartenente alla famiglia dei vegetali “psicoattivi”, che inducevano negli assuntori un particolare stato allucinogeno. Non bisogna, tuttavia, fermarsi a valutare soltanto quest’aspetto, pur ragionevolmente importante, ma sottolineare la ricerca di uno stato di coscienza primitivo che consentisse all’officiante ed ai partecipanti ai rituali di entrare in contatto con l’energia primordiale dell’Universo. 

Nell’insieme si celebrava un vero e proprio banchetto sacro durante il quale, oltre alla bevanda misteriosa, frutto della spremitura della pianta del Soma, si consumava la carne degli animali sacrificati (almeno un capro ed una vacca sterile), in aggiunta ad altre pietanze delle diverse tradizioni geografiche. Si intravedono notevoli parallelismi con i culti dell’Orfismo greco che influenzarono il rituale antropofagico dell’eucaristia cristiana (il corpo ed il sangue di Cristo).

Negli antichi testi indo-ariani è possibile apprendere un particolarissimo sistema di calcoli che, in maniera estremamente sintetica, viene definito “matematica vedica”. Alcuni studiosi indiani nel primo ventennio del ventesimo secolo, approfondirono la cosiddetta “saggezza matematica” racchiusa nei Veda e nei loro corollari, pervenendo ad una nuova ed originale teoria matematica, pubblicata per la prima volta nel 1965 con il testo “Vedics Mathematics” (11). In quest’opera, per la prima volta, furono descritte alcune tecniche di calcolo, adatte allo sviluppo di una maggiore elasticità nel ragionamento matematico, proponendo metodi alternativi di risoluzione dei vari problemi. Negli ultimi decenni, l’innovativa disciplina è stata introdotta nelle scuole indiane e l’Università di Nuova Delhi ha organizzato alcuni corsi di “matematica vedica” (12) per rendere lo studio dell’algebra e della geometria più attraente e comprensibile alle menti dei discenti. 





Tale metodologia è stata adottata anche da alcuni istituti universitari americani. Nel particolare, il concetto della “matematica vedica” si può riassumere nella ricerca della “semplificazione”, con la progressiva ricerca della riduzione dei calcoli complessi, rendendoli ridotti e gestibili perfino con la mente. Gli esempi di procedimento proposti dai Veda, a volte più semplici, a volte più ragionati, gettano una luce del tutto diversa sul concetto di matematica a cui siamo abituati, forse un po’ anche forzatamente. 


Tuttavia, contrariamente a quanto si possa pensare, nei sistemi vedici non vi è nulla di “magico”, in quanto le soluzioni algebriche delineate, per quanto audaci e quasi prodigiose, derivano da fondamenti scientifici precisi. E’ necessario aggiungere che la matematica araba, di cui ancora riportiamo i simboli numerici, trasse insegnamenti da quella antica indiana. Gli antichi scienziati delle valli dell’Indo e del Gange furono gli eredi della millenaria conoscenza esoterica dei Veda, sviluppando sofisticate teorie astronomiche e matematiche già a partire dalla fine del secondo millennio a.C., in un’epoca di gran lunga antecedente a Pitagora, Archimede ed Euclide. Brahmagupta (598-668 d.C.) riprese l’antica tradizione vedica (13), presentandosi come il primo matematico a considerare lo “zero” secondo i canoni moderni, riuscendo anche a risolvere importanti problemi relativi alle equazioni di secondo grado ed arrivando a descrivere la forza di gravità, molto prima di Newton. Egli si occupava dell’osservatorio astronomico della città sacra di Ujjain che risale all’epoca del poema storico Mahabharata (14). 

Secondo la sapienza vedica, tale osservatorio si troverebbe lungo il primo meridiano, da cui si partirebbe per fare riferimento all’intero globo terrestre. Nell’antica civiltà indiana la conoscenza astronomica non era scissa dalle credenze religiose, in modo da ottenere una perfetta armonia astrologico-karmica. L’astronomia vedica riusciva ad intravedere il piano divino nell’architettura dell’universo, a differenza delle scienze moderne, ossessionate dai pregiudizi del positivismo. A proposito della simbologia dello zero, essa fu importata dagli Arabi in Europa, ma la sua origine è senza dubbio indiana. Lo zero, dal punto di vista esoterico e filosofico, rimane un enigma, perchè non indica una quantità determinata ma non è neanche il nulla. In realtà anche il nulla è un’astrazione dell’uomo moderno, già Parmenide faceva notare che il “nulla non esiste”. Se osserviamo con cura il simbolo dello “zero”, notiamo che in sanscrito si scriveva con un piccolo cerchio, espresso poi in ambiente occidentale con una figura ellittica. Salta all’occhio come la grafica dello zero richiami quella dell’infinito, del “Brahman” che sta alla base di tutte le cose, come la stessa energia del vuoto è di supporto fondamentale per la percezione di ciò che è visibile. La matematica di origine vedica è, quindi, anche filosofica, con significati esoterici ed iniziatici, non rappresentando assolutamente una disciplina di meri calcoli astratti.

I “Veda”, soprattutto il testo più antico, il “Rig-Veda”, presentano tanti misteri e coincidenze sconcertanti che fanno vacillare la datazione tradizionale, di cui abbiamo parlato prima. Nel “Rig-Veda” è descritta, ad esempio, un’eclissi solare che, secondo i calcoli, dovrebbe essere avvenuta nel 3900 a.C.. La tradizione induista, infatti, colloca l’elaborazione dei testi sacri in un’epoca di gran lunga anteriore al 2.200 a.C.. 

Ma, a parte, l’esatta determinazione temporale, gli elementi che destano maggiore meraviglia sono le descrizioni di conoscenze astronomiche molto avanzate, così come racconti di guerre e di macchine volanti, difficilmente concepibili in maniera fantasiosa con dettagli così specifici. In alcuni passi, sembra quasi assistere ad episodi di conflitti nucleari, con la presenza di armi micidiali e sconosciute, mentre velivoli avveniristici solcano i cieli, in una combinazione particolare di leghe metalliche e di nozioni di metallurgia, degne della seconda rivoluzione industriale. 






Alcuni passi hanno il sapore dei racconti moderni di fantascienza, anche se sappiamo che provengono da una tradizione indiana di migliaia di anni e codificata da ignoti scribi, magari proprio a partire dalla fine del terzo millennio a.C..(15). Nel poema epico nazionale indiano, il “Mahabharata”, si descrivono numerosi conflitti sofisticati e complessi. Del resto, anche se la la cultura occidentale ritiene la civiltà umana nata soltanto qualche millennio fa ed arrivata soltanto oggi alla scoperta dell’atomo, considerando i popoli antichi primitivi e selvaggi, non è detto che ciò corrisponda al vero. Il fatto di pensare allo sviluppo della conoscenza soltanto in maniera “lineare” e non “ciclica” potrebbe costituire una sorta di superstizione occidentale, non ancora capace di comprendere i misteri che si nascondono nel lontano passato.

Il “Vymaanika-Shashtra” (16) è un incredibile manoscritto interamente in lingua sanscrita, tradotto poi in inglese, che narra di vicende lontane circa 15.000 anni, quando sembrerebbe esistita un’avanzata civiltà tecnologica, forse anche più di quella moderna. La traduzione letterale del testo è “Pratiche Aeronautiche” od “Astronautiche”, descrivendo la tecnologia dei Vimana, cosiddette “macchine volanti”, quasi si trattasse di un vero e proprio manuale di costruzione, manutenzione ed utilizzo di antichissimi velivoli. E’ possibile riscontrare dettagli tecnici di straordinaria precisione eziologica, soprattutto con particolare riferimento al sistema di propulsione ed a sistemi gravitazionali controllabili con la forza della mente, mediante pratiche di meditazione. 

A questo punto, si potrebbe pensare a ricostruzioni assolutamente fantasiose e prive di alcun fondamento scientifico. Ed, invece, se paragoniamo tali narrazioni ai moderni studi sulla possibilità di azionare comandi di guida, soltanto con gli occhi o con la voce, ci rendiamo conto come anche nell’epoca attuale, definita del “transumanesimo” (17), si stia intraprendendo il percorso dell’abolizione del “pilotaggio meccanico”. Sono già in fase di sperimentazione alcuni sistemi di “comando” dei caccia, basati solo sul movimento degli occhi del pilota. 

Non mancano descrizioni accurate delle leghe di metalli adatti alla costruzione dei “Vimana”, elencate nel numero di sedici e con l’importante caratteristica comune di assorbire molto bene il calore. Di particolare importanza è il riferimento presente nel testo ai “sette strati della terra”, dove sarebbero menzionati i metalli utili per costruire le macchine volanti. La chimica moderna individua proprio sette livelli energetici diversi che possono essere occupati dagli elettroni. Si può, a tale proposito, addirittura ipotizzare che gli abitanti dell’India di 15.000 anni fa avessero nozioni dei sette livelli energetici degli elettroni e di come si disponessero nello spazio intorno al nucleo. La scienza attuale ha individuato otto modi possibili di posizionare gli elettroni intorno al nucleo, così come poi tassonomicamente previsto nella tabella di Mendeleev.

Come ho avuto modo di accennare, la concezione del tempo nella letteratura vedica non è lineare, ma abbastanza complessa e sconcertante, per noi figli del razionalismo occidentale. Ad esempio, riveste una grande rilevanza la riflessione sulla creazione che non è concepita come un’azione puntuativa, bensì come una continua ripetizione del momento creativo iniziale, resa possibile proprio dallo scarto di un’idea dello scorrere del tempo in senso unidirezionale e senza possibilità di ritorno. Peraltro, per l’Induismo classico, gli stessi testi Veda non sarebbero stati neanche “scritti” nel senso tradizionale, ma apparirebbero come “eterni” ed “immutati”, che è un po’ come dire che vengono continuamente “ricreati”. Lo stesso atto creativo dei libri, pertanto, non andrebbe attribuito ai veggenti, ma essi sarebbero sempre esistiti, in una sorta di realtà atemporale. All’interno di un tempo “acronico”, quasi una contraddizione in termini, non vi è spazio per una narrazione cronologica degli avvenimenti, dove niente si evolve in maniera definitiva o degrada irrimediabilmente, né alcunchè appare irreversibile, in quanto è sempre aperta la “via del ritorno”, cioè di riattualizzare quanto è già accaduto.



Mi piace concludere questa breve rassegna con qualche considerazione sulla lingua sanscrita, un idioma per certi versi ancora misterioso e che è stato oggetto di recenti interessanti e sorprendenti approfondimenti. La lingua sanscrita è una delle più antiche lingue indoeuropee, anteriore al latino e al greco, con le quali condivide numerose caratteristiche comuni. L’etimologia del termine “sams-kr-ta” può essere tradotto con “perfezionato”, assimilabile al latino “confectus” (infatti la radice sanscrita “kt” corrisponde alla latina “fac”). Gli esegeti distinguono due varianti della lingue sanscrita, quella più antica, appunto denominata “vedica”, e quella “classica” di epoca successiva. I primi testi di grammatica sanscrita si diffusero in Europa nel diciottesimo secolo, risultando di straordinaria importanza per gli studiosi di linguistica comparata, alla luce delle evidenti affinità con il latino ed il greco. 

A differenza di queste ultime due, la cui declinazione prevede rispettivamente sei e cinque casi, la lingua sanscrita prevede ben otto casi (il locativo e lo strumentale). E’ ormai quasi acclarato che anche il latino ed il greco arcaici comprendessero questi due casi, poi caduti in desuetudine, come alcune espressioni idiomatiche hanno conservato anche in epoca classica (cfr. il cosiddetto “genitivo locativo” Romae). Attualmente il sanscrito è utilizzato soltanto da alcuni gruppi induisti per celebrare le loro cerimonie e nei testi sacri. Ma è davvero una lingua morta? Alcuni recenti studi hanno evidenziato come il sanscrito appaia un “vero e proprio” linguaggio per i computer, come ha riportato nel 1985 Rick Briggs (18), studioso di “intelligenza artificiale” della NASA. 

Le reti semantiche dei computer, negli anni Ottanta ancora primitive, apparivano sorprendentemente simili alla struttura della lingua sanscrita. Una tale particolarità potrebbe sembrare casuale, se non si mettesse in relazione con l’ideale di perfezione inseguito dall’antica sapienza vedica. In tale contesto, alla luce anche dei particolari contenuti dei testi, descritti in questa breve sintesi, risulta quasi spontaneo chiedersi quale livello di perfezione avessero raggiunto gli ideatori dei libri vedici, lasciando davvero ampio spazio a supposizioni sulla preesistenza di una civiltà avanzatissima.






Note:

(1) Gli studiosi ritengono che gli Arii abbiano inizialmente formato la civiltà di Andronovo, di matrice indoueropea, nata tra il III ed il II millennio a.C. nell’Asia centrale;
 
(2) L’Avesta è il testo sacro dello Zoroastrismo;
 
(3) Cfr. Cfr. Cerquetti-Karuna-Parana, La millenaria conoscenza dei Veda, Edizioni OM, Bologna 2012;
 
(4) Lo sivaismo o shivaismo può essere considerato un sistema filosofico e teologico sorto nella regione del Kashmir intorno all’VIII-IX secolo, derivante da antiche tradizioni tantriche;
 
(5) Cfr. Rossella Daniela, Induismo-Religiosità, Pensiero, Letteratura, Edizioni Guerini e Associati, Milano 2018;
 
(6) Cfr. Raimon Panikkar, I Veda- Mantramanjari, Ed. Rizzoli, Milano 2001;
 
(7) Om è un termine sanscrito indeclinabile che ha un particolare valore assertivo, posto all’inizio di numerosi testi della letteratura indiana. Per consuetudine, essendo ritenuta una “sillaba sacra”, è pronunciata all’inizio ed alla fine di ogni lettura dei Veda;
 
(8) La cosiddetta teoria delle “stringhe” cerca, in realtà, di conciliare la meccanica quantistica con la relatività, tentando di costruire una “teoria del tutto”;
 
(9) Sri Aurobindo (1872-1950) è stato uno dei più grandi filosofi e mistici indiani dell’epoca contemporanea, considerato perfino una sorta di “avatar”, un’incarnazione dell’Assoluto;
 
(10) La pianta montana del “soma” viene solitamente identificata con una particolare specie di “asclepiadacea” o con una “canna da zucchero”;
 
(11) Cfr. Bharati Krishna Tirtha, Vedic Mathematics, Editore Motilal Banarsidass Publishers, New Delhi 1965;
 
(12) Cfr., Federico Peiretti, Matematica vedica, su areeweb.polito.it, consultato il 4/06/2020;
 
(13) Brahmagupta (598-668) è considerato uno dei più grandi astronomi e matematici indiani, autore di due importanti opere di astronomia e matematica: il Brahmasphuta Siddhanta nel 628 ed il Khandakhadyaka nel 665;
 
(14) Il Mahabharata è considerato il più grande poema epico indiano, unitamente al Ramayana. Sembra che la sua versione finale sia stata perfezionata tra il IV sec. a.C ed il IV sec. d.C., anche se i fatti narrati, secondo la tradizione, risalirebbero al 2200 a.C. circa, nello stesso periodo dell’inizio dell’elaborazione dei Veda;
 
(15) Cfr. Richard Thompson, La civiltà degli alieni, Gruppo editoriale futura, Milano 1999;
 
(16) Si tratta di un testo decisamente misterioso, scritto in sanscrito e risalente agli inizi del XX secolo, ottenuto da un presunto “medium”, tramite “canalizzazione” e scrittura automatica, dove si affermerebbe che i “vimana”, citati nei testi vedici, sarebbero velivoli simili agli attuali razzi;
 
(17) Il transumanesimo è un movimento culturale che promuove lo sviluppo delle scoperte scientifiche e tecnologiche, per aumentare le capacità fisiche e cognitive dell’uomo;
 
(18) Cfr., Rick Briggs, Sanskrit and Artificial Intelligence- Nasa Knowledge Representation in Sanskrit and Artificial Intelligence, 1985.


3 commenti:

  1. Bellissimo articolo, sulla matematica vedica aggiungo che un mio vecchissimo professore degli anni 70 di topografia ci raccontò svariati sistemi di semplificazione di calcoli complessi imparato studiando testi scritti come dispense universitarie durante il ventennio, non solo ma ci aveva accennato di un modo che usavano i turchi per calcolare sulle mani che un mio amico imparò viaggiando in Turchia e di cui mi insegnò le basi utilizzato dai mercanti dei bazar di Istanbul, i turchi che glielo insegnarono che quel sistema era antico come i numeri e come questi ultimi veniva dall'india, poi scoprii da solo che dal Pakistan al Bangladesh passando per l'India il nome con cui si appellano i turni è ETRUSKI ��

    jj

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  2. Onore all'India, terra fertile di spiritualità e maestri. Le religioni monoteiste si devono solo inchinare dinanzi a tale reame, se penso alle cazzate bibliche che insegnano ai bambini al catechismo mi viene da piangere. Questo è il tempo di Lord Shiva, che sia distrutto chi merita di essere annientato, che sia purificato chi ha il cuore sincero, che sia benedetto chi nel cuore ha già la purezza.

    Il Baronetto

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