di: ROBERTO PECCHIOLI
Lo “scontro dei treni” si è consumato.
Così chiamano in Spagna la disputa tra lo Stato centrale e la Catalogna.
Il governo nazionale ha sequestrato le schede per il referendum
incostituzionale sulla secessione del 1 ottobre 2017, ha arrestato un
gruppo di funzionari del governo locale catalano impegnati nella
redazione dei provvedimenti a supporto della chiamata “disconnessione”
della regione dall’autorità costituzionale spagnola, il ministero delle
finanze ha assunto il controllo dei conti, la Guardia Civil e la Polizia
nazionale hanno perquisito uffici della Generalitat, ovvero del governo
autonomo catalano e represso le occupazioni dei separatisti insediati
notte tempo all’interno dei seggi. La tensione è al massimo nelle strade
di Barcellona e di altre città. A Manresa c’è stato un tentativo di
assalto alla caserma della Guardia Civil, dove vivono le famiglie degli
agenti, mentre i familiari del presidente di Ciudadanos, partito
favorevole all’unità nazionale, sono stati oggetto di un attacco al loro
negozio. Esponenti politici, commercianti, privati cittadini noti per
le loro posizioni “unioniste” sono accerchiati, insultati, oggetto di
intimidazioni. Insulti anche alla squadra di calcio dell’Espanyol, il
cui stesso nome molesta i separatisti.
In Italia – ma non solo – la stampa
manifesta una simpatia per la causa dei nazionalisti non spiegabile
razionalmente. I campioni della “legalità” sembrano parteggiare per un
gruppo dirigente, quello del variegato blocco favorevole
all’indipendenza, che si è posto apertamente contro lo Stato, il Governo
e la Costituzione spagnola, votata, tra l’altro, dai suoi stessi
rappresentanti politici. Il nazionalismo catalano piace, fuori dalla
Spagna, soprattutto alla “gente che piace”, ovvero ai progressisti, ai
liberal ed alle élite riflessive, affluenti, quelli che sanno già tutto e
hanno capito tutto. Diciamo che risentono di una mitologia antica,
quella della regione ribelle ed anarcoide degli anni 30. Purtroppo,
anche la stampa non schierata a sinistra è dalla parte di Barcellona. I
casi sono due: disinformazione sui fatti, antichi e recenti, ma
soprattutto, dietro la mistica del dialogo, dell’autodeterminazione dei
popoli e di una presunta oppressione spagnola sulla Catalogna, viene
nascosto l’attacco sempre più forte agli stati nazionali in nome del
cosmopolitismo globalizzatore. Paradossalmente ma non troppo, esso si
serve dell’esagitato nazionalismo di alcune minoranze interne per
dividere i popoli e menomare sino alla distruzione la sovranità degli
Stati.
Proviamo a fornire una lettura seria dei
fatti di questi giorni, le cui origini sono antiche, secolari, mai i
cui effetti sono la conseguenza degli errori immensi della transizione
spagnola degli anni 70 del XX secolo, dopo la morte di Francisco Franco
(novembre 1975), l’approvazione della costituzione (1978) e di
quell’ircocervo o guazzabuglio spagnolo che è il cosiddetto Stato delle
autonomie, cioè il sistema istituzionale e territoriale non più
centralista, non federalista, ma nel quale alcuni – Catalogna e Paese
Basco – contano più degli altri, con cedimenti successivi e sostanziali
di attribuzioni, poteri e prerogative da parte della Spagna (che non
viene neppure più chiamata con il suo nome, ma è declassata a Stato
spagnolo).
C’è di più, ed è l’assurdo logico di un
nazionalismo come quello catalano (il caso basco è storicamente e
culturalmente diverso) che, nato nella destra cattolica e rurale (Prat
de la Riba) e presso la borghesia liberale di Barcellona (Francisco
Cambò, Francesc per l’ossessiva catalanizzazione di tutto), si è
trasferito a sinistra già negli anni terribili prima e durante la guerra
civile iniziata nel 1936 e terminata tre anni dopo con un milione di
morti su meno di 30 milioni di abitanti dell’epoca. Oggi, i nazionalisti
e secessionisti più accesi sono comunisti vecchi e nuovi che hanno
gettato la maschera dopo storiche sconfitte e la ringalluzzita sinistra
radicale repubblicana erede della guerra civile. La destra catalana, al
governo locale quasi ininterrottamente dal 1980, e che ha espresso con
Jordi Pujol il politico più abile e scaltro di Spagna dell’ultimo mezzo
secolo, fortemente autonomista ma non secessionista è oggi in netta
minoranza, scavalcata dall’attivismo di una società civile e politica
che ha creato e plasmato essa stessa, per odio verso la Spagna e sete di
potere.
Solo il paraocchi può negare l’assurdo
logico, o l’ossimoro di una sinistra ultranazionalista, che canta a
squarciagola l’inno detto nazionale catalano Els Segadors (I
seminatori) pieno di riferimenti sanguinari e sventola la bandiera a
strisce orizzontali giallorosse della Catalogna a cui ha aggiunto una
stella bianca in campo azzurro, imitazione della bandiera della
rivoluzione castrista cubana. Con buona pace di qualche leghista
brembano ammirato dal secessionismo in salsa catalana, l’Estelada, la “stellata” ostentata dai manifestanti di Barcellona, distinta dalla antica senyera
simbolo del Principato, è simbolo di un bizzarro nazionalsinistrismo
che torna a galla dalle viscere della storia spagnola, che ha visto, nel
drammatico decennio precedente la guerra civile, il tentativo di
frantumare la Spagna in maniera violenta e farla finita con l’esistenza
di una delle più antiche nazioni europee.
Nelle presenti circostanze, va
riconosciuto che in Spagna tra i primi ad aver compreso la portata dello
scontro e della posta in gioco sono stati gli esponenti della sinistra
intellettuale non comunista il cui organo di riferimento è il quotidiano
El Paìs. Il giornale dei progressisti iberici ha assunto una posizione
chiarissima che potremmo definire patriottica in senso lato, prendendo
duramente le distanze dal mondo nazionalista ed antispagnolo che in
altre stagioni aveva largamente appoggiato, riconoscendo gli indizi e
gli schieramenti di una nuova contesa civile intraspagnola dagli esiti
imprevedibili. Ciò che non viene raccontato dagli osservatori italiani è
che il governo autonomo locale, presieduto da un uomo di centrodestra,
Carles Puigdemont, esponente del declinante partito che ha preso il
posto di Convergenza Democratica di Catalogna, chiusa per debiti e per
corruzione, è in mano ad estremisti paragonabili a Lotta Continua, la
CUP (Candidatura di Unità Popolare) mentre il motore ed il cervello
dell’operazione secessionista unilaterale è Sinistra Repubblicana (ERC),
un partito che agisce da ben prima della guerra civile e si è disfatto
dell’eredità di uomini come Josep Tarradellas e, più recentemente
Heribert Barrera, che seppero mantenere attitudini meno distruttive.
Non che la Spagna ufficiale non abbia
gravi colpe, giacché la peculiarità catalana, vera ed indiscutibile, è
stata in genere negata o repressa. Tuttavia, la monarchia spagnola,
prima della tempesta giacobina della Rivoluzione Francese, seppe trovare
un secolare punto d’incontro con le popolazioni basche e catalane,
insofferenti dell’egemonia castigliana, attraverso le autonomie dette
forali, che garantivano fedeltà alla Corona in cambio di autogoverno e
rispetto delle particolarità e degli usi, anche giuridici, locali. Nel
XX secolo, ed a partire dall’umiliazione nazionale del 1898 susseguente
alla perdita dell’ultima grande colonia, le Isole Filippine,
l’incomprensione e la contrapposizione territoriale si acuì, alimentata
dalla resistenza centralista di Madrid, ma anche dalla superbia, dal
senso di superiorità e dall’interessata avarizia della borghesia
catalana.
Il punto di scontro più vivo, il punto
di forza catalanista fu sempre costituito dalla difesa della lingua ed
effettivamente la repressione dell’uso pubblico del catalano è
sicuramente colpa storica della Spagna dal 1800 al 1975. Dietro
l’eccezione culturale, tuttavia, agiva l’interesse del ceto
imprenditoriale, più attivo che quello del resto della nazione,
un’industrializzazione che non riusciva tuttavia a competere con le
nazioni europee, talché la Spagna sempre fu protezionista con
l’industria, il commercio e la finanza barcellonese. Poi ci fu il
franchismo, con il suo nazionalcattolicesimo e lo spirito di rivalsa nei
confronti dei territori, come la Catalogna e le province basche, che
contrastarono la Spagna nazionale nella tragedia del conflitto civile.
Peraltro, i ceti dirigenti catalani e baschi ben si accomodarono al
franchismo, in cambio di vantaggi, investimenti pubblici e repressione
nei confronti delle masse operaie delle due regioni, costituite in gran
parte da spagnoli delle aree più povere del Sud, come l’Andalusia e
l’Estremadura e della Galizia atlantica.
La ferita della guerra giunse dopo
almeno trent’anni di instabilità e disordine, e fu alimentata da un
brodo di coltura fatto di povertà, privilegi di casta, odi antichi,
difficile transizione verso la modernità di cui fu portavoce la
generazione del 27, i poeti ed artisti, quasi tutti andalusi, che si
schierarono poi con la Repubblica e condividevano un forte pregiudizio
insieme antinazionale ed anticattolico che si convertì in risentimento
contro la storia spagnola, in particolare contro la sua regione-madre,
la Castiglia cuore ed anima della nazione. Sono celebri due ingenerosi
versi di una pur splendida lirica di Campos de Castilla di Antonio
Machado: Castilla miserable, ayer dominadora, envuelta en sus andrajos, desprecia cuanto ignora
(Castiglia miserabile, ieri dominatrice, avvolta nei suoi stracci,
disprezza quanto ignora). Il poeta sivigliano, di idee repubblicane, si
rifugiò proprio a Barcellona durante la guerra civile e morì nel
tentativo di attraversare la frontiera francese dopo la presa della
città.
Il quadro disegnato dimostra quanto sia
complessa la storia del paese e come non possa essere valutato il
difficile presente senza un minimo di conoscenza di eventi, umori,
rancori secolari, avversioni reciproche che lo scuotono almeno dal
secolo XIX, diremmo dalla costituzione liberale di Cadice imposta
dall’occupante francese nel 1812. Da allora, per motivi diversi, nessun
equilibrio è stato realizzato senza schiacciare una delle parti in
causa.
Nel 1975, morto il Caudillo, che era
comunque riuscito a tenere insieme la nazione, avviarla ad una prudente
modernizzazione ed anche a evitarne, almeno in parte, l’isolamento
internazionale, tutto cambiò, ma gli errori della Spagna di quegli anni
cadono adesso sul presente come un palazzo privo di fondamenta implode
su se stesso dopo un terremoto. Lo Stato delle autonomie, infatti, è una
stranissima e fragilissima costruzione che non ha ammesso apertamente
la sua vera ispirazione, non unitaria, surrettiziamente federale,
differenzialistica, non autonomista, ha lasciato in sospeso mille
questioni, spezzato l’unità della Castiglia, suddivisa in cinque parti
con aggiunta della Mancia di Don Chisciotte e del Leòn, e riconosciuto
privilegi alla Catalogna ed alle province basche (ribattezzate Euskal
Herria nel lessico dell’aperto razzista Sabino Arana) giustificati dalla
condizione di “nazionalità storiche” e dalla paura di nuove violenze.
La transizione con le autonomie “di via rapida” ha comportato la
concessione dello Statuto alla Catalogna, con la rinascita della sua
istituzione guida, la Generalidad, ma anche le fondate proteste della
regione più popolosa del paese, l’Andalusia, egemonizzata dal Partito
Socialista di Felipe Gonzàlez e una divisione della torta che ha
danneggiato il centro territoriale del Paese.
Nella confusione seguente, lo Stato
centrale si è progressivamente spogliato di moltissime competenze a
favore di tutte e diciassette le regioni, ma la parte del leone è
toccata alla Catalogna. I partiti di destra, in difficoltà per
l’identificazione con il franchismo, hanno praticamente rinunciato ad
essere presenti e propositivi nelle due regioni separatiste,
appaltandone l’amministrazione a forze ideologicamente affini, ma
politicamente opposte per il loro nazional localismo, come il PNV,
partito nazionalista basco e soprattutto Convergenza in Catalogna,
regione che rappresenta il 17 per cento della popolazione e almeno il 20
per cento dell’economia.
Destra e sinistra spagnole,
impossibilitate a trovare accordi diretti, per decenni si sono alternate
al governo a Madrid patteggiando con la spregiudicata minoranza
parlamentare catalana, il cui appoggio ha significato sempre nuove
competenze, trasferimenti di denaro e di potere che, nel tempo, hanno
pressoché sostituito in loco lo Stato spagnolo con un agguerrito mini
stato catalano. Per quanto sembri incredibile, la Generalidad ha rango
di parlamento e la sua amministrazione si chiama governo; non ci sono
assessori ma ministri e si fa largo la pretesa, molto costosa per il
contribuente, di avere rappresentanza all’estero. Anche in Italia esiste
una delegazione del “Govern de Catalunya”, presieduta dal dottor Luca
Bellizzi. Da almeno vent’anni, poi, il separatismo lotta per avere
proprie rappresentative “nazionali” sportive ed un distinto comitato
olimpico, mentre una lunga battaglia è stata condotta nel mondo di
Internet per ottenere indirizzi informatici con dominio separato:
esibire un sito “punto cat” è un orgoglio catalano. Tutto questo sarebbe
aneddotico e persino pittoresco, se tra le competenze di cui si è
spogliato lo Stato non ci fossero quelle sull’educazione, la sanità, la
fondamentale politica linguistica ed in parte l’ordine pubblico.
Agli ammiratori del nazionalismo
catalano, che si definisce aperto, inclusivo e dinamico come la
“nazione” che incarna, va fatto conoscere il vergognoso attacco contro
tutto ciò che è spagnolo, a partire dalla lingua. Sebbene la
Costituzione spagnola, e lo stesso Statuto garantiscano il bilinguismo,
la Catalogna si comporta nei confronti della lingua spagnola (sempre
definita castigliana) come la Spagna con la regione ribelle nei suoi
peggiori momenti di plumbea uniformità. Non solo tutte le scritte
pubbliche sono redatte esclusivamente in catalano, ma è monolingue il
bollettino ufficiale della Generalitat, come ogni avviso, documento e
comunicazione delle istituzioni. Le insegne delle attività commerciali
devono essere in catalano pena multe notevoli, mentre chi riconverte
nella lingua locale le proprie didascalie è sovvenzionato. La
modulistica delle istituzioni territoriali e sanitarie non sfugge
all’imposizione monolinguistica che, rammentiamo, taglia fuori e
comunque discrimina quasi la metà della popolazione, che non è di
madrelingua catalana ma spagnola. Dei 7,5 milioni di abitanti, almeno
900.000 sono nativi della sola Andalusia e l’immigrazione interna dal
resto della Spagna da un secolo è il principale sostegno dell’industria
catalana.
Il vero asso nella manica dei
nazionalisti, il colpo da maestri su cui hanno costruito il loro potere,
costruito e diffuso la narrazione storica di nazione oppressa e messo
in piedi un potentissimo apparato propagandistico, burocratico e
clientelare è stata la cosiddetta “immersione linguistica”, ovvero la
sostituzione pura e semplice della lingua spagnola con quella catalana,
imponendola negli apparati pubblici territoriali e nella rete televisiva
pubblica TV3 nel silenzio complice dei governi nazionali. Una Spagna
matrigna che ha abbandonato per miope tornaconto oltre 3 milioni di
concittadini, definiti xarnegos, termine che, per l’Istituto di
Studi Catalani (organo della Generalidad), corrisponde a “immigrato di
lingua castigliana residente in Catalogna, detto spregiativamente”. Il
dramma- poiché spesso tale diventa – è avere imposto il catalano come
lingua in cui viene impartito l’insegnamento durante tutto il corso di
studi.
In Alto Adige la popolazione di lingua
tedesca ha ottenuto scuole di ogni ordine e grado nell’idioma materno
dei sudtirolesi, ed è una conquista di civiltà, ma la minoranza di
lingua italiana – netta maggioranza nella città di Bolzano e dintorni –
dispone di altrettante scuole nella nostra lingua. In entrambe, si
prevede, per ovvi motivi di comunicazione e di reciproca integrazione,
l’insegnamento dell’altra lingua ufficiale della provincia. Tale modello
viene respinto energicamente dalle parti di Barcellona in quanto il
catalano sarebbe “l’unica lingua propria della nazione catalana”.
Sofferenze e difficoltà enormi per bimbi e ragazzi di lingua spagnola o
provenienti da altre zone del Paese, dodicimila insegnanti costretti ad
emigrare, non pochi lavoratori di ogni settore che rifiutano il
trasferimento in Catalogna per la difficoltà scolastica che dovrebbero
affrontare i loro figli, nonché per la pretesa legale di dimostrare la
conoscenza dell’idioma locale anche in impieghi in cui non appare
necessaria.
Sarebbe questa è l’attitudine
“integratrice, aperta e dinamica”, nonché progressista che tanti
ammiratori suscita tra i fieri democratici nostrani e, disgraziatamente,
anche in diversi “moderati” di casa nostra, specie del Nord. Si tratta,
al contrario, di assimilazione forzata sotto pena di esclusione
sociale, di negazione della realtà plurilingue da oltre mezzo millennio,
oltreché, ed è il tratto peggiore del sistema, di un indottrinamento
continuo dei giovani, in spregio ai fondamenti della democrazia, a
partire dai libri di testo, per continuare all’interpretazione capziosa
della storia comune, alla diffusione sottile quanto pervicace del
disprezzo di tutto ciò che è spagnolo. Espanolista, spagnolista, è un
epiteto lanciato come oltraggio ai concittadini di origini, o lingua, o
semplicemente di convinzioni distinte da quelle del nazionalismo locale.
Non potendo contare su una forte base
etnica come nel Paese Basco, i catalani considerano tali tutti coloro
che vivono in Catalogna, stranieri compresi, purché rinuncino a sentirsi
spagnoli. E’ quindi ormai prevalente un sentimento che pone i figli –
educati in una scuola con tratti parossistici da regime
ultranazionalista– contro i padri. Le generazioni più giovani, allevate
nella scuola a competenza esclusiva regionale, sono le più sensibili al
messaggio separatista, anche perché è l’unico che abbiano ascoltato. Il
silenzio colpevole dell’altra Spagna e dell’altra Catalogna politica e
culturale è infatti impressionante ed è rotto solo da pochi anni da
alcune benemerite entità civiche e da un’unica forza politica,
Ciudadanos, partito centrista in questi giorni nel mirino dei facinorosi
avvolti nell’ Estelada ben più che il Partito Popolare di governo.
Le colpe di questo partito sono enormi:
da un lato, ha rifiutato spesso il dialogo con i catalani anche su temi
su cui l’accordo era possibile e doveroso, ma dall’altro ha lasciato
campo libero ai separatisti per almeno trent’anni in cambio di un patto
scellerato di corruzione e di potere. Troppo tardi per correre ai
ripari, la soluzione è lontanissima e del resto il PP ha rinunciato
programmaticamente ad essere partito nazionale anche in Galizia, dove
domina da sempre e cavalca il micro nazionalismo locale, altra insidia
per quel che resta dell’unità nazionale spagnola. La parlata locale,
variante del portoghese, viene imposta come lingua ufficiale, in
galiziano si esprime nel Consiglio regionale il presidente del PP, e
anche le città hanno cambiato nome. La Coruna è divenuta A Coruna,
Orense Ourense, mentre El Ferrol, città natale di Franco è adesso
semplicemente Ferrol.
I telegiornali e financo la stampa, che è
ovviamente quasi tutta in lingua spagnola, si adeguano. La Babele
linguistica e toponomastica, naturalmente, ha per epicentro la
Catalogna, in cui è pressoché proibito chiamare Lérida la città con quel
nome, adesso Lleida, e dove i due grandi quotidiani in lingua spagnola,
che dipendono largamente da sovvenzioni della Generalidad, non si
azzardano a scrivere Catalogna nella versione spagnola Cataluna con la
tilde, il caratteristico segno a esse rovesciata sopra la lettera enne
esclusivo della lingua spagnola che si legge “gn”. Siamo al punto che le
istituzioni locali si offendono assai se non si scrive Catalunya (la
pronuncia è uguale, per fortuna) e se ci si azzarda a indicare in
spagnolo il nome di qualsiasi istituzione, a partire dall’onnipotente
Generalitat.
Poiché poi il nazionalismo sovreccitato
spesso tende non solo ad escludere, ma anche ad aggredire o rivendicare
patrie altrui, viene altresì alimentato il mito dei Paesi Catalani,
ovvero una specie di imperialismo dell’Estelada, che dovrebbe
comprendere la regione di Valencia, la quale risponde detestando
cordialmente i vicini del Nord, le Isole Baleari, una fettina della
derelitta Aragona (culla di lingua spagnola del Regno di cui fece parte
la Catalogna medioevale sino all’unificazione da parte dei Re Cattolici)
e, per non farsi mancare nulla, il dipartimento francese dei Pirenei
Orientali il cui capoluogo è Perpignano. Anzi, al consueto gentile,
democratico ed inclusivo falò della bandiera nazionale spagnola cui si
abbandonano impuniti i separatisti in ogni occasione, da quest’anno si è
unito il rogo di bandiere francesi. Con maggiore dignità di quelle
madrilene, le autorità francesi hanno vivamente protestato, esigendo
indagini e punizione dei responsabili.
Poi, ultimo ma forse primo per
importanza e pericolosità, specie nel futuro prossimo, c’è il tema della
folle concessione, condivisa con il Paese Basco, la Navarra e le Isole
Canarie, di un corpo di polizia di obbedienza e competenza regionale.
Dopo l’attentato della Rambla, il grande pubblico ha conosciuto
l’esistenza dei Mossos d’Esquadra, i ragazzi di squadra, che sono ben
17.000, ovviamente sono armati, sia pure con armi leggere, manovrano
blindati antisommossa, sono nominati in concorsi locali e rispondono
agli ordini del governo regionale, cui sono stati assegnati i poteri di
ordine pubblico. E’ come se ad una associazione di piromani fosse
attribuita la direzione dei vigili del fuoco. Risultato, le polemiche
durissime relative alle indagini malfatte sul terrorismo islamico, la
mancanza di dialogo con Polizia e Guardia Civil, le diverse catene di
comando.
Nella situazione dello “scontro di treni
“istituzionale, a chi obbediranno i Mossos? A livello nazionale, già si
pensa di esautorarli in alcune funzioni in quanto sembrano inattivi
rispetto alle consegne ricevute dai tribunali dello Stato in ordine alle
questioni del referendum illegale. Intanto, le forze di polizia
nazionale sono in netta minoranza in Catalogna e spetta ai Mossos il
controllo esclusivo del territorio, tanto che in questi giorni si
assiste all’assurdo di poliziotti e guardie civili che svolgono
l’attività istituzionale con alle spalle i militi locali che fanno da
cordone rispetto alle intemperanze dei più esagitati nazionalisti.
Abbastanza divertente è verificare che
anche la parola nazionalista non chiarisce il senso di ciò che accade:
meglio separatista o indipendentista. Infatti, la nazione fa riferimento
alla nascita, al radicamento delle generazioni, ma i più accaniti “indepes”
sono figli degli emigranti spagnoli. Il capo dell’Assemblea Nazionale
Catalana si chiama Sànchez, il cognome della deputata di Podemos che ha
gettato via una bandiera spagnola deposta nella Generalitat nel corso di
un dibattito è Martìnez, il responsabile dei Mossos, Trapero, è
originario di Valladolid, Nuova Castiglia. Lo stesso Puigdemont, dal
cognome catalanissimo, è in parte di ascendenza andalusa. Ed è normale,
in una terra che ha oltre cinquecento anni di storia comune. Dov’è,
dunque, questa nazione tanto distinta e diversa dalla Spagna, se non nei
libri di testo partigiani, nella lettura unilaterale della storia, nel
vittimismo e nel disprezzo ostentato verso gli “espanolitos”, nell’
impartire lezioni di civiltà e democrazia da assai dubbie cattedre? Gli
stessi Mossos d’Esquadra portano il nome niente affatto neutrale di
reparti catalani del 1700 che si opposero con le armi al Regno durante
una delle periodiche ondate di violenza che hanno attraversato la Spagna
in ogni tempo.
Il dente, insomma, duole da secoli, ma
la metastasi è figlia di un quarantennio di errori e, dal lato catalano,
probabilmente è figlio di inconfessabili accordi con settori della
finanza, della massoneria internazionale, molto forte in Catalogna, con
opachi comitati d’affari che chiamano in causa gli Emirati Arabi e il
regno del Marocco, che incoraggia l’emigrazione in Catalogna, molto
gradita da quegli strani nazionalisti e dai loro referenti del potere
economico. La Spagna, tuttavia, ha battuto, finalmente, un colpo. Nel
nome della storia e per difendere gli Stati nazionali, argine debole, ma
insostituibile contro il dominio cosmopolita del denaro, stiamo dalla
parte del vecchio Regno di Spagna, che è, per quanto sembri strano, la
stessa parte di una Catalogna libera, plurale, attiva, pacificata, non
rancorosa e provinciale come è diventata contro la sua stessa vocazione
di avanguardia, un paese bello e civile in cui si deve poter vivere da
spagnoli, da catalani, da stranieri e anche da apolidi.
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