di: Stefano Sogari
Tempi addietro, mi addentrai in una
lettura definita come “classica” ma che funzionò come un ordigno a
scoppio ritardato: “Il Trattato del ribelle” di E. Jungher. L’autore non
ha bisogno di presentazioni: figura vasta e poliedrica di filosofo,
ricercatore sulle Vie dello Spirito ma anche aristocratico soldato
dell’antica Germania post-romantica, scrisse quel testo nel Dopoguerra
quando ancora non erano evidenti alcune storture della società odierna
nella sua illusione totalitaria basata sulla Tecnica ed il suo dominio.
La lettura fu difficile non tanto per ciò che vi era scritto ma per
capirne la “ratio” dato che sembrava un testo elaborato in tempi
assolutamente non corrispondenti a quelli della sua effettiva redazione.
Ne “L’Operaio” , scritto decadi prima, era ben diversa la visione
dell’Uomo circa la possibilità di adire ai segreti delle macchine per
superare i propri limiti e costruire una nuova civiltà preterumana.
Decenni dopo è evidente la disillusione, forse
dovuta ad un pessimismo storico dell’autore viste le tremende
vicissitudini della sua Germania e dell’Europa in generale. L’uomo si
ritrova in pieno boom economico: una espansione di beni e servizi
portata avanti proprio dalla Scienza, ma qualcosa non quadra, inizia un
sentore di oscurità che sarà poi definito meglio e nitidamente in anni
successivi e che, adesso a vedersi, diventa palpabile. L’Uomo si ritrova
schiavo di un Sistema molto più complesso di un semplice Regime di
occupazione:
“essendo il Ribelle uomo d’azione,
azione libera ed indipendente. Abbiamo constatato che questa tipologia
può comprendere solo una frazione delle masse, e tuttavia è qui che si
forma la piccola èlite capace di resistere all’automatismo e di far
fallire l’esercizio della forza bruta. È l’antica libertà in veste
moderna: la libertà sostanziale, elementare, che si ridesta nei popoli
sani ogniqualvolta la tirannide dei partiti o dei conquistatori
stranieri opprime il paese. Non è una libertà che si limita a protestare
o emigrare: è una libertà decisa alla lotta” .
Jungher non fu l’unico a delineare una
nuova trincea di conflitto ma definisce un’antinomia irriducibile
nell’evo contemporaneo: Libertà contro Totalitarismo moderno, Uomo
Organico contro Uomo automatizzato. Ma l’automa non è solo ed
eminentemente una macchina, anzi: l’automa è il dominatore delle
macchine, la mente diabolica che teorizza e costruisce in serie
procedimenti automatizzati per inserire la vita dell’uomo in uno schema
prefissato che, via via, diventa scadenzario per poi assumere le
funzioni di un pezzo, di un bullone di un meccanismo. E’ la cosìdetta
alienazione incosciente, quella che portò il poco studiato Ned Ludd a
esplodere, quel dì in Inghilterra, in una fabbrica tessile dove gli
operai oramai dovevano seguire i ritmi delle macchine, sfasciando le
macchine industriali in un’assalto disperato contro il Nulla; un Nulla
più oscuro e malvagio di ogni tirannide. Ma è la Macchina che domina
l’Uomo o è l’Uomo che si fa interprete del male oscuro in sè presente
diventando fautore di un sistema disumano? La domanda è legittima ma in
questa la sede non ci sarebbe spazio per rispondere.
Giova ricordare che di Ned Ludd abbiamo
perso le tracce: dopo tutta la teoria social-marxista dello sfruttamento
che ha sfornato testi da riempire biblioteche e che ha creato carriere
su carriere e dinastie politiche, di questo oscuro operaio disperato non
si parlò più. Ma cambiamo epoca, proviamo a saltare di almeno cent’anni
e più tutto ciò che va dal Luddismo al pensiero antimoderno di autori
come Jungher, Evola o Pasolini e Ungaretti e finiamo nella
contemporaneità. Lo scenario è, oramai, aberrante. La “Macchina” ha
preso il sopravvento sul genere umano creando un sistema simile ad una
ragnatela raffinata e inestricabile dove tutto rimane avvolto, anche
invisibilmente. L’alienazione è giunta a livelli sovrumani in tutti i
campi incluso la sfera più intima della persona ed i suoi recessi fatti
di amore, sesso, sentimenti, legami. I sogni rivoluzionari sono falliti,
le guerre proseguono nel migliore dei mondi possibili o nell’unico
mondo rimasto (vedasi Fukuyama quando teorizzava la Fine della Storia) e
non sono solo guerre nel senso “bellico” con invasioni, azioni militari
su territori stranieri, mobilitazione di uomini e mezzi sempre più
sofisticati. Si tratta di un concetto di guerra che travalica i confini e
che invade le nostre società e che rimbalza tramite il sogno-incubo
della Globalizzazione. Proprio per questo l’argomento dei reduci di
guerra negli USA, specificatamente, è un imbarazzante problema: è noto
che divennero una categoria a rischio perché alcuni di essi manifestano
il loro essere schegge impazzite in una società che ha relegato il
dominio di Marte nella distruzione automatizzata per finalità di
sfruttamento economico.
Il Guerriero diventato Soldato e poi
“operaio bellico” di una sempre più complessa e acefala macchina, mostra
la sua alienazione al pari di disagiati operai di fabbriche o di
impiegati di società. Lungi dallo scrivente l’attribuire ad alcune
categorie dei sentimenti coscienti di tipo filosofico e politico circa
la giustezza o meno di un assetto di potere; semplicemente è accaduto
che gli uomini non essendo macchine ed in quanto ancora umani si
accorgono di essere “estranei” al ritorno in Patria; lungi dall’essere
cani da guardia il cui destino è una polpetta ed il rientro nel recinto
di una specie di Luna Park sempre più finto, essi diventano
“imbarazzanti”. Non tutti hanno chi li attende, non tutti riescono a
mettersi a riposo: in alcuni di essi degenera lo stress post-traumatico
e, torniamo sempre lì, l’alienazione ed il disagio, l’orror vacui della
società consumistica e capitalistica che, ai loro occhi, ha perso di
senso.
Nella filmografia, vero specchio della
nostra società come una volta lo furono altre Arti di tenore diverso, si
colgono dei segnali di tutto questo in quanto essa legge e traduce in
spettacolo e, forse, in psicodramma collettivo, gli accadimenti ed i
movimenti delle correnti psichiche nelle masse. Ritengo che sia
interessante analizzarne le pulsioni ed i messaggi, al di là del
messaggio effettivo che alcuni registi abbiano voluto lanciare: sovente
un messaggio si forma come si può formare una prova processuale
nell’ambito di un procedimento: gli effetti possono essere sorprendenti.
Ma bisogna uscire dagli schemi ed andare sotto la superficie, tra le
righe della sceneggiatura.
Il simpatico “Gunny” di Clint Eastwood, ad
esempio, ne è la versione in positivo, seppur border-line ed ancora ben
irreggimentato, di questo dissidio tra “normale” sul piano dell’Uomo
fedele alla sua natura intima e arcaica, ed il “legale” sul piano delle
regole e delle consuetudini di una società in evoluzione. Quando una
società è espressione di un sistema di valori essa procede lungo una
tratta armonica, rimanendo ancorata al suo Ethos e producendo un certo
tipo umano. Quando la medesima diventa fondata su astrazioni si crea il
dissidio, l’antinomia, lo scontro ed il rifiuto di una parte dei suoi
presunti difensori, perché non c’è identificazione e manca il
riconoscimento. Gunny è un duro, un eroe per molti, una scocciature per i
suoi superiori, una mina vagante per il sistema che, progressivamente,
trasforma i soldati in tecnici della Guerra, dove il valore individuale
ed il carattere diventano “ingombranti”, quasi.
Scena del film Gunny con Clint Eastwood
Ma Gunny trova la sua
dimensione, alla fine la spunta lui perché riesce ancora a maneggiare ed
a gestire un reparto “immondizia” dove viene scaricato onde farlo
morire come persona. Trasforma quei ragazzi, indisciplinati e figli di
un’America oramai totalmente diversa da quella di generazioni
precedenti, in veri soldati che lo amano e lo rispettano. La favola
finisce a lieto fine. Ma Gunny è un uomo solo, non parla con molti, in
pochi lo capiscono, ai più sembra un bizzarro relitto di un passato
glorioso ma inutile. Un superiore glielo dice senza mezzi termini: “sei
come quegli arnesi messi dietro una vetrata con su scritto <rompere
in caso di guerra>, qui stiamo creando un nuovo tipo di Marine, tu
sei fuori tempo”. Ma Gunny, come abbiamo detto, la spunta perché forse
non è vero che non c’è spazio per uomini come lui; alla bisogna
dell’azione in pochi si porrebbero sotto i comandi del burocrate, a
differenza del nostro spaccone sergente obbiettivamente un po’ svitato.
Ma lo scenario non è sempre così
positivo, spesso invece viene registrata una inquietitudine diversa ed a
più livelli, non solo quello militare.
Eppure l’elemento che prende forma è sempre lo stesso: la ribellione di uomini ormai soli, senza meta, senza più possibilità di riscatto; non è un’epopea da rivoluzionari, è un Don Chisciotte moderno anzi, a volte, è un Sancho Panza senza Don Chisciotte vicino. Eppure tutti questi personaggi sembrano tornare a Jungher quando dice: “In un’orgia furiosa l’uomo vero si ricompensa della sua continenza. I suoi istinti troppo a lungo repressi dalla società e dalle sue leggi ridiventano l’essenziale, la cosa santa e la ragione suprema.
Chi sono questi personaggi e come mai hanno colpito la fantasia di scrittori, registi, giornalisti e documentaristi?
La Cronaca nera ne è una risposta
spontanea: negli USA è sempre più piena di storie di reduci in
disgrazia, per molti l’emarginazione e l’abisso psichico che colpisce,
ondata dopo ondata, tutti i rientrati delle varie guerre coloniali del
sistema America, diventano una costante tra vecchie e nuove forme
devianti. Ma non sono gli unici a diventare mine vaganti: è tutta una
società che periodicamente viene percossa da fenomeni di pazzia
collettiva o individuale o, semplicemente, da gruppi umani che non si
riconoscono nel sistema ma che non hanno
altro da dire o fare, nei confronti del medesimo che federarsi tra di
loro in gruppi criminali di stampo tribale. Si formano delle società di
fatto, del tutto immerse nella società ordinaria ma non obbedienti alla
stessa. Sono le Comunità fuorilegge che variano tra gangs etniche o
tribali, motociclisti, abitanti liminali di aree ai margini o del tutto
fuori i centri urbani come descritto dal film “Non è un paese per
vecchi”, del 2007.
In Europa il fenomeno prende corpo più tardi, in
quelle forme, ma è già evidente in alcuni prodromi. In più riscopriamo
l’odore della paura ad opera di chi viene da terre lontane, agito da
correnti psichiche a noi incomprensibili, proveniente da sistemi che
pensavamo esauriti in epoche preistoriche. O, differentemente, per via
della temperie delle guerre mediorientali, ad opera di assassini veri e
propri e tagliagole misti a guerriglieri di varia natura: veri e propri
predatori che si ritrovano in giro per l’Europa Occidentale dove si
discute, con comiche elucubrazioni costituzionali, se si possa espellere
o meno un richiedente asilo che spacci droga per le strade o che
aggredisca un uomo in uniforme.
Lo scenario è quindi scisso tra una
ebollizione di veleni da una parte ed una quota maggioritaria di persone
che vivono nel solco dell’ormai ben noto “produci, consuma, crepa”,
senza porsi altre domande che cosa mettere in foto su Instagram o cosa
scrivere su Facebook per commentare le proprie vacanze rispetto a quelle
dell’amica del cuore.
Un ritorno all’animale che si divide tra
predatori e sciacalli da una parte e greggi di ovini e banchi di pesci.
Uno scenario del tutto imprevedibile eppure molto ben descritto dalla
parte più tormentata della filmografia d’Oltreoceano, anche quella
d’autore. In tempi non sospetti iniziò il mitico Taxi Driver di Robert
De Niro, immortalato come capolavoro ma di cui pochi hanno colto alcuni
aspetti sociali assolutamente anticipatori dei tempi che viviamo. Anche
qui un reduce del Vietnam, solo e stordito, totalmente
decontestualizzato circa la società di una megalopoli come NYC dove lui
vagabonda in notturna alla guida di un Taxi, ancora di salvezza nel mare
magnum della solitudine subita più che cercata. In lui si nasconde un
eroe, latente e stravagante, ma un tipo di eroe che lo rende estraneo
alla società a prescindere di ogni sua qualità di coraggio e
abnegazione. La sua ribellione è altruistica ma quasi ingenua, non
servirà a tirarlo fuori dal buio della sua prigione mentale e sociale.
Un aspetto che rimane stabile in queste inquietanti descrizioni di
“uomini contro” è che essi, senza una vera prospettiva realizzativa che
sia di stampo politico che metapolitico o spirituale, rimangono fermi
nella loro palude.
Nel caso di Taxi Driver il protagonista,
alla fine dell’avventura, rimane esattamente dove stava: a guidare un
Taxi di notte al cospetto del brulicare delle vite degli altri. Si
aggiunga che il film, molto significativo, è permeato di dimensione
esistenzialista e crepuscolare e quindi non lascia intendere ai più un
ragionamento che focalizzi dimensioni più critiche circa i problemi
sociali per come si stanno inverando nella società delle Metropoli
americane. Eppure tutta la storia di questo personaggio è un affresco di
una società parcellizzata e densa di malesseri. Un messaggio più forte,
più specifico, invece, già prende forma nel famosissimo “Rambo” di un
po’ di anni dopo: “Non sarebbe successo niente senza quello stronzo di
poliziotto, io volevo soltanto qualcosa da mangiare” – “lasciami stare,
in città sei tu la legge qui la legge sono io” – “In Vietnam ero
responsabile per apparecchiature da milioni di dollari, qui non riesco
nemmeno a trovare un lavoro come posteggiatore”.
Rambo non è un film qualsiasi, Rambo è
una pietra miliare che avrà sempre qualcosa da dire per via
dell’indovinata narrazione del regista Ted Kotcheff, la quale andrà a
toccare dei punti molto dolorosi in una società ancora inebriata dal
boom reaganiano dei fantastici anni dorati dell’economia in crescita
perenne e dell’ottimismo da pubblicità dei dentifrici. Rambo sfuggì ai
più proprio nei suoi dettagli più scabrosi, forse per via del grande
successo tra gli amanti del genere bellico più focalizzati sulle
tecniche militari e sulla precisione della descrizione dei modus
operandi di questo personaggio, destinato a divenitare un’icona Pop. Ma
c’era molto di più in lui: un anticipazione di tempi oscuri che
iniziavano a prendere forma nelle menti più avvedute. Rambo è vittima
del suo passato ma più ancora del suo passato è vittima del suo presente
e di una società che lo rifiuta, che lo teme, che non lo vuole manco
vedere in quanto Rambo è lo specchio di una generazione che si divide
tra Baby Boomer arricchiti ed ex Hippies benestanti, entrambi dediti a
quella cavalcata verso le radiose sorti del Capitalismo come unico dei
mondi possibili.
Chi disturba il manovratore è visto come un poco di
buono, come un pazzo o un eversore, nella migliore delle ipotesi come
uno svitato. Ovviamente
la storia è romanzata ed è esasperata ma il marchio dell’azione non
mancherà a tanti “squilibrati” vittime di stress post-traumatico,
destinati a esplodere per suicidarsi o per disseminare morte e
distruzione nelle file di un nemico immaginario che è la società intera.
Scena del film Rambo con Sylvester Stallone
Non si può non pensare ad una critica a tutto tondo della società
americana che si presenta vittima di pulsioni “law and order” quanto
impegnata a spazzare sotto il tappeto i rifiuti sociali che il proprio
sistema crea, incluso le guerre. Le quali guerre però, in qualche
maniera, sono parte ineludibile di un sistema di benessere diffuso che
permettono alla popolazione americana di vivere in una specie di sogno
borghese consumistico e spensierato. Ma Rambo è la loro cattiva
coscienza, per questo il sistema lo vuole fermare, non riuscendo a
zittirlo. Quel film diventerà epocale, molto più dei suoi spettacolari
sequel, probabilmente manovrati e opportunamente rielaborati da
consulenti governativi che hanno redirezionato la saga del ribelle
solitario in più utili direzioni.
In altri casi la ribellione è più
insidiosa, perché nasce dal vicino di casa ordinato e tranquillo,
all’apparenza cittadino modello, il tipico uomo di cui ci si fida a
prima vista. E qui nasce un altro filone che è quello delle “mine
vaganti” ignote che il sistema coltiva e costruisce all’interno di una
società disomogenea e disarticolata, dove il cittadino non è parte di
una Polis ma è solo un individuo che si trova sgangiato dai suoi simili
per finire in una tenaglia tra collasso psichico causato da una
insopportabile pressione famigliare e da una spirale di incontri
sfortunati ai margini della Jungla urbana che è la società reale che il
buon padre di famiglia borghese e benestante non riconosce.
E’ William
Foster de “Un giorno di ordinaria follia”: un ordinario e benestante
cittadino modello americano bianco e anglosassone che, un giorno, scopre
che la società non è fatta per lui né lui per la società. Il corto
circuito è inevitabile e inizia da una sorta di luddismo spontaneo fino a
giungere alla dimensione del Lupo Solitario che ha deciso di combattere
il prossimo, il nemico vero o presunto o casualmente identificato come
tale. Nella discesa agli inferi del protagonista non se ne salva uno: il
ricco e grasso borghese del Golf Club, avvinghiato ad una vita da
vecchio tirchio, il gruppo di banditi di strada, dei Latinos convinti di
esistere grazie alla loro delinquenza per bande, persino una ditta per
lavori stradali, che non è abituata a scusarsi per il pubblico
disservizio, ma non manca il fast food con i dipendenti maleducati.
“ dovrà lasciare per sempre il suo campo da golf, eh si, morire con quello stupido cappello in testa che effetto fa?”.
“Questa è una contesa territoriale, io ho invaso la vostra terra di merda e voi vi siete offesi ed io lo rispetto”.
“Ora ci sono io, sull’altra faccia della
luna, ho perduto i contatti con il mondo e tutti dovranno stare col
fiato sospeso aspettando che sbuchi”.
Foster non sente ragioni, lui vuole solo
tornare a casa dalla sua famiglia ma una sorta di congiura degli
elementi lo pone di fronte alla scelta di restare “umano” o di
“diventare un guerriero” e dichiarare guerra al mondo che non lo h
compreso ed adesso lo teme. Anche qui tutto l’apparato sistemico si
mobilita automaticamente contro di lui, contro il pazzo, contro l’Io
puro seppur malato che non riequilibra il suo solipsismo nel panteismo
di una realtà con cui entrare in dialettica feconda. Non c’è spazio per
Fichte ma solo per il Nichilismo nella Jungla urbana a Los Angeles.
Foster è un sacco da pugile dove tutto ciò che agita in negativo la
società scarica i suoi pugni: la moglie che gli fa vedere la figlia con
il contagocce, un lavoro che lo emargina fino al licenziamento, un
tessuto urbano dove si è costretti e convivere con persone sgradevoli se
non pericolose di cui non si colgono i linguaggi specifici, con le
“pandillas” criminali, con alienati vari. Ed anche il suo “cacciatore”,
il Sergente Prendergast, non è un gagliardo combattente in uniforme ma
una persona che ha dovuto discendere in una specie di purgatorio
immeritato per via di un rapporto matrimoniale totalmente squilibrato,
gestito da una moglie castrante e infantile. Una vita che avrebbe dovuto
essere “eroica” con tutti i crismi e che, invece, diventa caricaturale e
che, alla fine richiederà una rimescolata di carte in nome del
servizio, per fermare il Lupo Solitario, al di là della Grande Madre
coniugale, per finire la carriera ma da Uomini.
E’ evidente che la Cinematografia ha
percorso un cammino parallelo all’evoluzione sociale della società
americana, paradigma della post-reaganiana modernità. Si sta delineando
un concetto ben descritto: nella società dell’alienazione consumistica e
dell’”uomo massa” numerizzato chi si ribella o, semplicemente, chi
scoppia unisce alla solitudine naturale della sua condizione una
successiva qualità di “schegga impazzita” senza più coordinate
spazio-temporali. Il film è ricco di spunti, questa volta abbastanza
chiari, nel descrivere una fase sociale già critica e avviata nel
periodo post-reaganiano di cui si coglieranno gli aspetti sempre più
deteriori molto rapidamente. A questo punto, il quadro è chiaro e non è
più nascosto o frammisto con altri richiami di bontà tipici della
filmografia Hollywoodiana; oramai non si può nascondere il lato oscuro
del mondo in cui viviamo ed i film ne colgono perfettamente dei dettagli
forse precedentemente nascosti per ragioni politiche. E’ il caso della
brutale storia raccontata nel film “La Fratellanza” del regista Rick
Roman Vaugh, siamo nella contemporaneità più coeva, è un film del 2017:
un vero pugno nello stomaco per non dire un incubo ad occhi aperti in
cui una tranquilla e ben assortita famiglia americana, bianca e
benestante, si ritrova catapultata in un Inferno legale e sociale senza
mezzi termini.
E’ il classico ascensore sociale che, ad
un certo punto, si rompe e precipita portando tutti i suoi membri in un
sotterraneo da cui non si uscirà mai più. Ed il “bello” è che il film
colpisce per la sua veridicità perché se abbiamo memoria del caso
Parlanti che riguardò un cittadino italiano, fortunosamente uscito dal
supercarcere di Fresno in Arizona ma non prima di molti anni di
sofferenze, ci rendiamo conto che veramente la storia illustrata è una
possibilissima storia di cronaca. Basta poco, nel film come nella
realtà, per chi conosca quel sistema: una serata tra amici, una bella
moglie e tanta spensieratezza, una disattenzione derivante dal bere.
Basta poco, una disattenzione: un incidente mortale, tutto finito, tutto
distrutto. Jacob Harlon, un promettente e giovane uomo d’affari ha
davanti a sé la prospettiva di una rovina economica totale, spese legali
che non si riescono a sostenere, il carcere dove termina ogni possibile
mediazione e dove inizia l’Inferno dantesco moderno; un luogo dove puoi
durare pochi giorni, intero, o anni ed anni, ma solo a patto qualora si
comprenda che esiste una parte di sé che la società moderna ha omesso
di farti scoprire ma che sarà l’unica ancora di salvezza possibile nel
contesto di un vero e proprio campo di battaglia.
Film: La fratellanza
Il lato oscuro
dell’uomo, il ricordo di epoche primitive, diventare ciò che non
vorresti mai essere, oppure soccombere e fare una fine da schiavo
doppiamente prigioniero: del sistema penitenziario e dei suoi gruppi
dominanti ufficiosamente al comando dei detenuti in un gioco di “vedo e
non vedo” con le Autorità Penitenziarie che hanno tutto l’interesse al
Divide et Impera. Jacob Harlon ha poco tempo per decidere ma nel suo
cuore ha già deciso: si unisce alla Fratellanza Ariana, una sotterranea
struttura criminale caratterizzata da regole precise e spietate e
dall’appartenenza razziale esibita con simboli e tatuaggi per far capire
ai branchi degli altri detenuti di altre razze che c’è una parte del
carcere che non è più cosa loro.
“Nessuno tocca la mia famiglia”.
“progettano posti come questo per distruggere uomini come noi, glielo permetterai?”.
“Voi avete le vostre regole noi quelle della Fratellanza, per noi contano di più”.
Nella realtà penitenziaria USA quel tipo
di organizzazioni esistono veramente e possiamo immaginare che una
persona qualsiasi, estranea al mondo criminale ma, per pura sfortuna e
disattenzione, ci possa finire a contatto senza alcuna mediazione. Negli
USA si passa
dall’oro al piombo senza fasi intermedie, e lì una società totalmente
selvaggia come fu l’origine di quella società, torna a rimanifestarsi in
modo palese ma ovviamente in un modo distorto, perché stiamo cmq
parlando di un sistema alienato, dominato da forze brutali sia sul piano
economico che sul piano della realtà ai piani bassi. Il protagonista
del film diventa parte del branco, poi diventa capo-branco, ed entra nel
mondo non riconosciuto dei “guerrieri senza ideali” che vivono nella
pura sopravvivenza, che si ribellano alla “non scelta”. Da questi film
emergono delle verità, se vogliamo già ampiamente descritte in altri
scenari molto più elaborati culturalmente e spiritualmente, da soggetti
differenziati verso l’alto. Eppure il tema della ribellione è quanto di
più variegato ed al contempo adattabile possa esistere perché come
esiste una scintilla interiore in ognuno di noi, è anche vero che la
società moderna offre occasioni di manifestare la propria natura ribelle
in modo totalmente diverso a seconda dei contesti. Il momento della
ribellione è liberatorio per tutti gli uomini che si rendano conto di
essere sottoposti ad una tirannia da parte di un sistema, qualsiasi esso
sia. Nell’ambito immaginativo di questa filmografia non ci sono dubbi
che ognuno di noi possa ritrovare accenni ad autori nominalmente molto
distanti dai mondi descritti: si va dallo Jungher a Pasolini nel famoso e
verista “Una vita violenta”. L’alienazione è il tratto comune dei
personaggi raccontati ed è una condizione oramai ale che i soggetti
coinvolti non hanno più gli strumenti per sviluppare altra strategia che
non un nichilistico “assalto alle mura” di una Gerusalemme che non sarà
mai “celeste” ma forse neppure terrena su piani realistici.
E’ il risultato di un percorso di
demolizione di ogni possibile percorso sociopolitico complesso il quale
viene precluso lasciando il ribelle solo e, spesso senza causa,
prigioniero di una palude, di una selva comuni ai suoi nemici. La selva
è, però, soprattutto interiore ed è la tangibile prova che il nichilismo
è l’unica dimensione rimasta per i nostri “antieroi”, un nichilismo
post-Nitzscheano e sicuramente non rivoluzionario seppur si prenda
questo termine nell’accezione che ne diede la letteratura russa che
affibiò questo termine spregiativo ad una categoria molto problematica
di rivoluzionari. Nulla di tutto ciò: la selva oscura in cui l’animo
umano è stato smarrito dalla Tecnica e dalla Società di massa non ha
spazi di luce e non concede messaggeri simbolici come fu in Dante; solo
un mercuriale istinto di sopravvivenza porta i ribelli a iniziare la
loro caccia selvaggia negli scenari che essi si ritrovano a vivere, che
siano di loro scelta o meno. La prospettiva è divisa tra una solitaria
lotta fino all’ultimo secondo di energia, oppure un pactum sceleris con
delle belve più consimili per costruire un progetto di sopravvivenza
predatoria: il tutto in una discesa nel Purgatorio che potrebbe
diventare un semplice Inferno.
Forse il compito dell’uomo odierno è
proprio questo: riscoprire la propria Wildnis da una parte e sposarla
con una Sophia che ricrei un percorso di reintegrazione nella vera
libertà, in un atto di rifondazione dell’umano che non termini il
proprio percorso in una sorta di Risiko esistenziale su un tavolo da
gioco deciso dal Sistema, un sottobanco per i disgraziati. Ma un Nuovo
Ordine Cavalleresco o Legionario di uomini e donne differenziati ma
reintegrati in Principii superiori sia sul piano etico che, di concerto,
sul piano di una Metafisica dell’Umano/Oltreumano che proietti il
ribelle nell’Empireo, al di là delle trappole del sistema e dei suoi
schemi alienanti.
La sfida sarà imprescindibile per essere uomini e
donne liberi e per rifondare una società dove ai ribelli sia dato vivere
con prospettive superiori e, forse, rivoluzionarie.
Forza!siamo tutti uniti, dobbiamo vincere per il BENE NOSTRO,ALTRUI E DELL'UMANITÀ
RispondiEliminaAdmin moon
L'uomo, per cause a lui ignote, deve sottostare ad un complesso gioco virtuale, ma che nella vita di tutti i giorni diventa maledettamente reale.
RispondiEliminaIn questa immensa play station ci sono infinite scelte di gioco. Ognuno, quando inizia il percorso, cerca di fare del suo meglio per scansare gli ostacoli che lo ostruiscono. Molti, si adattano e con perizia li schivano, e seppur con fatica raggiungono il sospirato traguardo. Altri invece, non sono avvezzi al gioco, e si avventano maldestramente in avanti pensando di farcela, ma inevitabilmente ci sbattono contro la faccia. Qui il punto è che tutti vogliamo arrivare al traguardo, che nessuno o quasi sa veramente che cavolo sia.
Dalle mie esperienze di gioco, ho constatato che non è affatto necessario giocare sempre.
I traguardi che la nostra ostica pazza mente bene o male ci impone, avverando i nostri desideri
più inconsci o facendoci solo sognare, diventano alla fine dei nostri giorni dei simulacri illusori di tutto il gran d'affare che ci siamo dati. Direi che diventa di vitale importanza per la nostra costituzione psicofisica, tra una partita e l'altra, fare delle lunghe pause rigeneranti per poter riflettere su tutto ciò, ed è in questi frangenti di gran calma che possiamo pescare nell'intelletto le giuste idee che ci difettano.
L'alternativa esiste. Basta pensare che la creazione è una combinazione di due energie: materia e spirito. Senza una non esiste nemmeno l'altra, che poi dalle due nasce la terza: l'anima umana. Non c'è alcuna meraviglia, che la moltitudine umana piaccia "gozzovigliare" nella materia densa, ha sempre pensato(e pensa) che le altre due energie siano una cosa esterna, separata da essa. All'occorrenza, per richiamarne l'attenzione, Ad alcuni, è sufficiente farsi il segno della croce. Per altri, basta stendersi a carponi con il sedere per aria. Altri ancora, ritti in piedi, fanno innumerevoli volte il gesto del tacchino. Poveracci! La spessa ignoranza non riesce a scrostarsi di un micron. Mo adesso mi faccio un bicchiere di 'cartizze' e mi guardo un fumetto di Tex Willer. Alla salute di tutti noi.
Ciao White Wolf volevo sapere che ne pensi del 5G,fara male per l'umanità?
RispondiEliminaAdmin moon
Ciao White wolf,sul discosdi dei vaccini,e vero che poi vogliono far paura di prendere malattie?
RispondiEliminaPer non prendere malattie,cosa bisogna fare?Vivere in natura?
Secondo te?...grazie
Admin moon
Admin moon
RispondiEliminasi è appena liberato un letto in psichiatria.
Stavo parlando di un altra cosa,il discorso sui vaccini e complicato,almeno per me,devo vedere se ci sono alternative....Vai tu in psichiatria
EliminaAdmin moon
Il vaccino è solo per controllarci, è guerra al sistema immunitario
RispondiEliminaAdmin moon