Per scovare i mandanti della carneficina del “venerdì 13” non serve allontanarsi da Parigi, probabilmente basterebbe visitare il quartier generale della Dgse, la Cia francese. Lo sostiene Federico Dezzani, analizzando le falle, troppo clamorose, della sicurezza: tre kamikaze che si fanno saltare in aria allo stadio, uccidendo solo se stessi, per dar modo ai colleghi di scorrazzare in pieno centro su una Seat Leon nera, per quasi mezz’ora, sparando nel mucchio.
Tutti gli indizi, afferma Dezzani, conducono ai vertici dei servizi segreti francesi, rinnovati sotto Nicolas Sarkozy e confermati sotto la presidenza di François Hollande: «Con il subentrare allo spionaggio transalpino di personaggi vicini agli angloamericani è avviata nel 2012 la strategia della tensione.
L'ex presidente Nicolas Sarkozy ebreo sionista
Dopo una pausa coincidente con i primi due anni della presidenza di Hollande, il terrorismo islamico riesplode in concomitanza alla caduta verticale del capo dello Stato nei sondaggi». Sarebbe questo, sostiene l’analista, il vero ruolo della “Direction générale de la sécurité extérieure”: organizzare l’accurata copertura necessaria a rendere efficace l’azione dei commando, nient’altro che manovalanza reclutata e addestrata.
Sul suo blog, Dezzani ricostruisce la mattanza. Apre le danze alle 21.30 davanti allo Stade de France il kamikaze Ahmad al Mohammad, con cintura esplosiva: si fa saltare in aria ed è il solo a morire. Cinque minuti dopo, in centro, compare la Seat Leon: i terroristi a bordo sparano contro i ristoranti “Petit Cambodge” e “Carrillon”, 15 morti. Allo stadio si fa esplodere un secondo kamikaze (Bilal Hafdi?), morendo senza causare vittime. Intanto la Seat raggiunge Rue de la Fontaine au Roi, bersaglio i locali “Casa Nostra” e “Bonne Bière”, 5 morti tra gli avventori. Poi l’auto si ferma in Rue de la Charonne, davanti al bistrot “Belle Equipe”: altre 19 vittime. Alle 21.40, vicino a Place de la Nation, un terrorista sceso probabilmente dall’auto nera, Brahim Abdeslam, si fa esplodere al locale “Compte Voltaire”: ferisce alcuni avventori ma è l’unico a perdere la vita. La Leon nera, guidata presumibilmente dal fratello del kamikaze, Saleh Abdeslam, sarà ritrovata a Montreuil, ad ovest di Parigi, con tre Kalashinkov a bordo.
Non è finita: alle 21.40 scendono da una Volkswagen Polo nera quattro terroristi, armati di fucili automatici e a pompa. Fanno irruzione nella sala da concerto Bataclan, durante un’esibizione degli Eagle of Death Metal: inneggiando ad Allah, alla Siria ed all’Iraq compiono una carneficina. Pochi minuti dopo, alle 21.53, ancora nei pressi dello stadio si fa esplodere un terzo kamikaze: nessuna vittima, eccetto lui. «Solo a questo punto, Hollande è trasportato al ministero degli interni, mentre la partita continua fino al termine».
Venti minuti dopo la mezzanotte, le teste di cuoio fanno finalmente irruzione nel Bataclan, dove nel frattempo è avvenuta la mattanza: tutti terroristi si fanno esplodere, tranne Samy Animour che è colpito a morte prima di azionare la cintura. Bilancio del terrore nel teatro, 90 morti. Ma intanto affiorano le prime stranezze: mentre per il “Wall Street Journal” Hollande avrebbe lasciato lo stadio alla prima e non alla terza esplosione, le foto ritraggono il presidente nella sala stampa dello stadio alle 21.36, quindi sarebbe corretta la versione di “Le Monde”: Hollande trasportato all’esterno solo dopo la terza e ultima esplosione, a rischio ormai cessato.
E’ come se i kamikaze avessero ricevuto l’ordine di farsi saltare in aria non tanto per uccidere spettatori, quanto per attirare la polizia lontano dal centro, dove stavano per entrare in azione i commando di killer. «Tra l’esplosione del primo e del terzo kamikaze intercorrono 33 minuti: è il tempo dell’azione terroristica nel suo complesso, anche se gli ultimi strascichi si protraggono al Bataclan fino alle 00.20». La terza deflagrazione nei pressi dello stadio, in Rue de la Cokerie vicino al McDonald’s, era il segnale che la sicurezza attendeva per trasportare Hollande fuori dallo stadio? Le prime stranezze risalgono a due ore prima della strage: alle 19.30, secondo “Le Figaro”, un avventore del ristorante “Cellar”, a tre minuti del Bataclan, ha inutilmente segnalato alla polizia la presenza di un’auto sospetta, una Volkswagen Polo nera, parcheggiata di traverso, con a bordo quattro individui (musulmani europei, secondo il ristoratore). Erano intenti a digitare sui telefonini e, a quanto pare, in evidente stato di alterazione da droghe. «E’ risaputo che i tagliagole dell’Isis in Siria ed Iraq facciano uso di anfetamine, sia per commettere atrocità a cuor leggero sia per sconfiggere la paura», scrive Dezzani. Il 26 ottobre al porto di Beirut sono state bloccate due tonnellate di anfetamine Captagon prima che fossero imbarcate sull’aereo privato di un principe saudita.
Secondo Dezzani, gli elementi direttamente operativi il 13 novembre a Parigi sarebbero stati non meno di 20-25: troppi, per passare inosservati. «Che un complotto riguardante un tale numero di persone, molte delle quali note ai servizi e per di più “calde”, sia sfuggito ai radar della sicurezza francese – a dieci mesi di distanza da Charlie Hebdo e a tre mesi dall’attacco terroristico sul treno Amsterdam-Parigi – è una falla simile all’11 Settembre: impossibile, a meno che i servizi non siano complici».
Quanto alla provenienza delle armi, si scopre che il 5 novembre la polizia tedesca aveva fermato in Baviera uno slavo ortodosso del Montenegro a bordo di una Volkswagen carica di Kalashnikov e diretta a Parigi. Le auto impiegate, poi, sono piene di indizi, dalle targhe ai biglietti dei parcheggi: «Sembrano essere studiati apposta per indirizzare le indagini in Belgio, dove anche agli attentatori di Charlie Hebdo avrebbero acquistato le armi: lo scopo è probabilmente alleggerire la posizione delle autorità francesi, rendendo più giustificabili all’opinione pubblica i continui smacchi subiti dalle forze di sicurezza. Le dichiarazioni di Hollande e Valls puntano infatti a discolpare la Francia ed evidenziare le responsabilità esterne».
La parte più assurda della vicenda? E’ la pretesa che l’operazione sia stata pianificata in Siria. Secondo Hollande, «gli attacchi sono stati stati decisi, pianificati in Siria, organizzati in Belgio e condotti sul nostro territorio con complici francesi». Avvalorano questa testi persino i «fantomatici servizi iracheni», secondo cui la Francia sarebbe stata informata in anticipo, almeno il giorno prima, dell’ordine di morte “partito dal Califfo”. Abu Bakr Al-Baghdadi?
«Nient’altro che un prodotto dei servizi americani, sfornato dal famigerato carcere di Bucca gestito dalle truppe statunitensi in Iraq, crogiolo di quasi tutti i capi dell’Isis». In ogni caso, aggiunge Dezzani, visto che l’Isis bombardato dalla Russia è ormai in rotta da settimane, è pura fantasia ipotizzare che un micidiale “quartier generale” dei terroristi sunniti abbia potuto organizzato gli attentati in Francia senza farsi scoprire da Nsa, Cia, Mossad e Dgse. Ma la cronaca regala anche risvolti tragicomici: secondo la “Cnn”, dalla sua roccaforte di Raqqa (ora bersagliata dai missili russi) i boss del Califfato avrebbero aggirato l’Fbi usando messaggi criptati in modo semplicissimo. «Ora si scopre che gli attacchi di Parigi sono stati organizzati attraverso la messaggeria della PlayStation 4: è l’equivalente dei taglierini per dirottare i Boeing sulle Torri Gemelle».
Terroristi braccati? Macché: «Si scopre che “la mente” della strage di Parigi, il marocchino Abdelhamid Abaaoud, si vanta – sulla propaganda web del Califfato – di viaggiare indisturbato tra Siria e Belgio, pur essendo ricercato dalle polizie di mezzo mondo. Ricorda un po’ i brigatisti che, negli anni di piombo, riuscivano sempre ad evadere dal carcere in un modo o nell’altro». Ma se il vero Al-Baghdadi «è già morto, almeno due volte», e se l’Isis è sotto scacco in Siria ed Iraq, visto che il commando del “venerdì 13” è composto «da piccoli criminali della banlieue parigina e qualche reduce siriano in botta da anfetamine», chi ha coordinato e supervisionato gli attacchi? «Cherchez à la Dgse», suggerisce Dezzani, puntando il dito contro l’intelligence francese all’estero, l’equivalente transalpino della Cia e dell’Mi6.
Ai tempi di Jacques Chirac, di tanto in tanto il servizio francese rifilava agli americani qualche colpo basso, come «la sullodata morte di Bin Laden», secondo i francesi risalente al 2006, «per ridicolizzare la “Guerra al terrore” di George W. Bush e Tony Blair». Ma la situazione si è ribaltata con l’avvento al’Eliseo di Nicolas Sarkozy: tra i primi provvedimenti del neo-presidente, oltre a riportare la Francia sotto il comando integrato della Nato, «c’è, non a caso, il pensionamento dei vertici dei servizi fedeli a Chirac e la cooptazione di nuovi elementi, di provata fede atlantica».
Bernard Bajolet
Una rivoluzione copernicana: dal 2007, secondo “Le Monde”, l’intelligence inglese ha accesso illimitato ai dati riservati francesi. E nel 2008 arriva a coordinare i servizi Bernard Bajolet, ex-ambasciatore francese in Iraq e Algeria. Poi torna alla diplomazia in Afghanistan, ma nel 2013 è lo stesso Hollande a richiamarlo alla guida della Dgse. «Il periodo in esame – rileva Dezzani – coincide con i tentativi di Parigi, Washington, Londra, Tel Aviv e monarchie sunnite, di rovesciare Bashar Assad: Hollande arriva fino ad ipotizzare un intervento franco-americano contro Damasco nell’estate del 2013, prima che Obama si tiri indietro lasciandolo con il cerino in mano». Strategia della tensione? Parla da sola la tragedia del 2012, con il franco-algerino Mohammed Merah che a Tolosa fa 8 vittime, colpendo militari e comunità ebraica. Poi si scoprirà che il killer era un informatore della Dgse: «Quante cose avrebbe potuto raccontare, il giovane magrebino, se non fosse stato ucciso nel blitz delle teste di cuoio per “catturarlo”?».
Sarkozy perde le elezioni, e all’Eliseo arriva Hollande: «La strategia della tensione è momentaneamente archiviata, finché i sondaggi di gradimento del presidente socialista raggiungono, nel breve volgere di tre anni, un record negativo storico». E riecco il terrore, da “Charlie Hebdo” al treno Amsterdam-Parigi, fino alla strage di novembre. Uno stragismo che, sotto Hollande, secondo Dezzani «ha compiuto un salto di qualità: sia per l’efferatezza e spettacolarità crescente degli attacchi, sia per la loro internazionalizzazione». La violenza a Parigi «si salda col tentativo, da parte del Likud israeliano e dei falchi americani, di trascinare il presidente Barack Obama in guerra, prima in Yemen (Charlie Hebdo) e poi in Siria, con l’ultima carneficina parigina». Ecco perché diventa facile sospettare che Bajolet, il capo della Dgse, non potesse essere all’oscuro degli eventi in preparazione. «La corresponsabilità dei servizi francesi nelle stragi dell’ultimo anno – aggiunge Dezzani – è certificata dalla sconcertante indulgenza di cui godono, nonostante le incessanti e drammatiche débacle».
Dall’inizio del 2015 sono state uccise quasi 150 persone, senza che nessuna testa sia caduta. Al contrario: anziché accusare la sicurezza, Hollande annuncia misure d’emergenza per limitare la libertà, controlli sulla stampa e perquisizioni non autorizzate dalla magistratura. La strage di Parigi serviva anche per costringere Obama a spedire truppe in Siria? Obiettivo mancato: il capo della Casa Bianca si è accordato con Putin al G20 di Antalya e ha bocciato qualsiasi ipotesi di “stivali americani” sul suolo siriano. Ma non c’è da stare tranquilli, conclude Dezzani, perché c’è il rischio che la strategia della tensione venga utilmente impiegata in politica interna, e sempre di più: «Si può dire che i vertici del sistema euro-atlantico considerano ormai lo stragismo di Stato un arnese della politica simile alle mance elettorali sotto elezioni: l’avvicinarsi di tornate elettorali decisive, tra il 2016 ed il 2017, rende sicuro il crescendo di violenza».
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