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martedì 27 agosto 2019

La saggezza degli antichi Dei


di: Giovanni Pucci

La percezione dell’uomo contemporaneo, inevitabilmente plasmata da due millenni di predicazione cristiana, spesso non riesce a cogliere l’unità complessiva della sensibilità religiosa pagana. Traslando tout court sui vecchi dei l’immagine dell’unico Dio della Bibbia, è facile accorgersi però che più di qualcosa non torna. Come può infatti qualcuno che dovrebbe essere infinitamente buono e misericordioso, onnipotente ed assolutamente al di sopra, anzi, al di fuori di questo mondo, farsi trascinare nelle risse, essere ferito, ubriacarsi, amoreggiare e uccidere? Già tutte queste azioni stonano con una visione assoluta, che crede nel puro Bene e nel puro Male, come quella del monoteismo nato in Galilea, ma vengono magari accettate con qualche sorrisetto da chi nonostante tutto ha conosciuto, seppur blandamente e solo per sentito dire le mitologie classiche greche e romane, che dipingono di volta in volta uno Zeus sessualmente superattivo, sempre pronto a ‘cornificare’ la sua sposa, o quest’ultima eternamente gelosa e pronta a vendicarsi sui figli illegittimi del padre degli dei. Invidie, opposte strategie, scontri fisici contrappongono gli dei tra loro e tra i mortali, che spesso vengono usati come pedine. 


Questo quadretto, chiaramente superficiale e che non sfiora neanche il significato della concezione pagana del mondo e degli dei, esseri sì sovrumani ma totalmente immersi in questo mondo e come tali pienamente partecipi del suo destino, viene generalmente liquidato come frutto di una mentalità primitiva, che avrebbe generato divinità rozzamente modellate sugli stilemi delle società a loro contemporanee e che avrebbe lasciato il passo al cristianesimo, religione della verità rivelata affermatasi in luogo dei ‘falsi dei’. Anche chi non crede nei dogmi del cristianesimo, sia esso ateo o agnostico, in generale tende a percepire quest’ultimo come una religione più evoluta, persino più razionale (sic!), rispetto al paganesimo, con le sue divinità legate ai fenomeni naturali e preda degli stessi sentimenti che abitano l’animo umano. Cosa ci sia poi di sensato in un Dio che per mondare dai peccati una sua creazione (che in quanto tale dovrebbe essere esente da difetti) incarna sé stesso in un figlio di un falegname e muore crocifisso tra atroci sofferenze è un altro paio di maniche…


Un Dio che appartiene a tribu nomadi del medioriente  e di cui esso stesso dichiara siano il suo popolo eletto, non potrà mai essere un Dio di noi indo-europei, anche nella sua eccezzione archetipale ed egregorica la differenza è abbissale. I nostri Dei non sono stati sconfitti o cancellati come credono, sono assenti dal razionale ma restano in un area del sub-conscio, pronti a riaffiorare con tutta la loro forza per ristabilire l'ordine naturale delle cose, essi potrebbero sfociare anche in forme diverse dalle originarie, ma è necessario accordarsi con queste forze per riprendere in mano il nostro destino e dei nostri popoli.



Ma volendo comunque ricondurre a tutti i costi le divinità pagane a rappresentanti e difensori del Bene inteso come principio ci si scontra con aspetti più ambigui della semplice violenza, invidia o lussuria. Episodi oscuri che mal s’adattano a chi, sempre secondo una mentalità incardinata nel monoteismo, dovrebbe essere solo l’incarnazione luminosa della verità. L’inganno infatti non è escluso a priori dalle possibilità d’azione delle divinità pagane. Volendo riferirsi esclusivamente alla tradizione germano-scandinava vi sono almeno due circostanze in cui gli Asi fanno apertamente uso della doppiezza. La prima fu quando commissionarono la costruzione delle mura di Asgard. Quelle vecchie erano state distrutte durante la guerra con i Vani. Si presentò allora un fabbro, appartenente alla stirpe dei giganti che si offrì di costruire un recinto migliore del precedente in diciotto mesi. In cambio pretendeva però la dea Freyja, il sole e la luna. Gli dei replicarono che doveva completare l’opera in un inverno e senza l’aiuto di nessuno. Il fabbro accettò; tuttavia con l’intercessione di Loki ottenne di avere l’aiuto del suo cavallo Svadilfari. Giorno dopo giorno l’opera andava avanti spedita e il fabbro avrebbe sicuramente completato le mura in tempo. Gli Asi si accigliarono temendo di perdere la bella Freyja, il sole e la luna ma il maniscalco era intoccabile. Infatti, non sentendosi sicuro tra gli dei, aveva preteso che il contratto fosse sancito con solenni giuramenti e testimonianze.

 A tre giorni dall’inizio dell’estate gli dei si riunirono in assemblea e si chiesero chi aveva deciso di mandare Freyja nello Jotunheimr, la terra dei giganti, e di spogliare la volta del cielo degli astri più belli. Furono tutti d’accordo nel dare la colpa a Loki, il solito responsabile dei guai divini. Quindi lo minacciarono di trovare una soluzione a quella situazione. Loki, spaventato dal furore divino promise che l’avrebbe fatto. 




Si trasformò così in una puledra e nitrì chiamando a sé Svaldifari. Il cavallo rispose al richiamo della giumenta/Loki e fuggi inseguendola nel bosco. Il fabbro gli andò dietro ma lo recuperò solo il giorno dopo. Resosi conto che non avrebbe potuto finire la costruzione in tempo si lasciò andare in preda all’ira, giusto in tempo per farsi fracassare il cranio da Thor, subito invocato dagli dei ai primi accenni d’incandescenza del gigante. Per inciso dopo qualche tempo Loki partorirà uno splendido destriero ad otto zampe. Sarà chiamato Sleipnir e diventerà la cavalcatura personale di Odino. Qui gli dei rompono quindi un giuramento per evitare di vedersi sottrarre Freyja, simbolo di bellezza e fecondità, e gli astri celesti, emblema della luce e della scansione temporale. Non possono permettere che i giganti, rappresentanti delle forze elementari e del caos primevo, mettano in pericolo l’ordine cosmico impadronendosi di forze così vitali. Non esitano quindi a ricorrere ad un tranello per invalidare il contratto. Lo fanno tramite Loki, appartenente a tutti gli effetti alla schiera divina, pur rispondendo anche alla stirpe dei giganti essendo figlio da parte di padre di Farbauti, appunto un gigante, e della dea Laufey. Loki, dio degli inganni, generatore dei mostri che rovineranno il mondo e causa di molti dei mali degli dei viene tuttavia tollerato perchè in molte occasioni, come questa, si rivela utile e la sua ora verrà solo nel momento supremo, nel Ragnarok, quando assolverà pienamente alla sua funzione di leader delle forze oscure. Prima di allora sarà un trickster, se non addirittura in alcuni frangenti un eroe civilizzatore come quando inventò la rete da pesca oppure come, secondo un’interpretazione, con il nome di Lodhur avrebbe donato “calore e bell’aspetto” a due tronchi d’albero contribuendo insieme a Odino e Hoenir a creare la prima coppia di esseri umani. Essendo sia nemico che aiutante degli dei, Loki incarna il principio del male che ha origine con l’inizio del mondo stesso ed è necessario per l’esistenza del cosmo. Per assurdo, egli a volte deve intervenire a soccorso delle forze benigne perchè il confronto finale con esse dovrà avvenire solo al tempo stabilito nell’ultimo giorno.





Di Loki era figlio Fenrir, vittima del più spudorato degli inganni degli Asi. Generato dal dio dei tranelli e dalla gigantessa Angrboda, fratello del serpente Jormungandr e della sovrana degli inferi Hel, Fenrir era un gigantesco lupo che cresceva ogni giorno che passava. L’unico che osasse avvicinarlo era il dio Tyr. Spaventati dalla sua mole e dalla sua ferocia e consci delle profezie nefaste che lo riguardavano gli dei decisero di incatenarlo. Prima prepararono una catena chiamata Lodingr e proposero al lupo di saggiare la sua forza. La belva accettò di farsi incatenare e spezzò il legame con facilità. Poi gli Asi costruirono una catena più robusta della prima, detta Dromi: anche stavolta Fenrir si liberò. Allora incaricarono i nani di forgiare una catena magica indistruttibile.

I nani, usando il rumore di un gatto che cammina, la barba di donna, le radici di montagna, i tendini di orso, il respiro di pesce e lo sputo di uccello, forgiarono una catena liscia come un nastro da seta e la chiamarono Gleipnir. Gli dei tornarono quindi da Fenrir. Stavolta il lupo subodorò qualcosa di strano e non volle lasciarsi legare. Gli Asi insistettero, giurando a Fenrir che se non fosse riuscito a scatenarsi l’avrebbero poi sciolto loro. Il lupo ancora non si fidava ma non volendo farsi accusare di codardia accettò ad una condizione. Uno di loro avrebbe dovuto mettere la propria mano nelle fauci del mostro, a garanzia del patto. Gli dei si guardarono l’un l’altro in silenzio. L’unico che si fece avanti fu Tyr. Fenrir provò inutilmente a liberarsi. Gli dei allora esultarono. Tutti, tranne uno, Tyr che da allora diventò monco. Il figlio di Loki rimarrà così imprigionato fino all’ultimo dei giorni. Se si considera che Tyr è considerato il garante dei patti, simbolo di legge e giustizia, la vicenda assume caratteri ancora più emblematici. Gli dei sanno che Fenrir costituisce un pericolo mortale per il mondo e che nel Ragnarok divorerà addirittura Odino, il padre degli dei. Tuttavia, non pensano neanche di mettere fine alla sua vita anzitempo. Possono solo cercare di arginare il male, non possono estinguerlo, poiché esso fa pienamente parte dell’esistente. La morte s’accompagna alla vita e gli dei stessi sono in balia del destino, al quale non possono sottrarsi. Il mondo è il campo di lotta dove s’affrontano l’ordine ed il caos, la materia e lo spirito. Per preservare il più possibile il cosmo gli dei come visto ricorrono anche alle menzogne, rompono un patto e ne fanno pagare le conseguenze ad uno di essi, proprio a quel Tyr la cui etimologia *DEIWOS* rimanda alla stessa idea di ‘dio’. Invocato dagli uomini come mallevadore, sacrifica consapevolmente la sua mano destra per il mantenimento dell’ordinamento cosmico. Espia così il necessario inganno degli Asi.




Un altro atto sicuramente scorretto secondo la morale cristiana fu quando, all’inizio dei tempi, i primi dei Odino, Vili e Vé uccisero il gigante primordiale Ymir, progenitore della sua stirpe e lo fecero a pezzi. Dalla sua carcassa trassero il mondo: la terra dalla carne, il mare dal sangue, le montagne dalle ossa, le pietre dai denti, dal cranio la volta del cielo e dal cervello le nuvole. Si erano anche premurati di sterminare la sua genia: si salvò solo il gigante Bergelmir, che riuscì a fuggire con la sua famiglia. Da lui sarebbe discesa una nuova stirpe di giganti che conserverà sempre l’odio verso gli dei. Anche in questo caso possiamo vedere come quelli che dovrebbero essere gli agenti attivi del principio del bene creino con le loro azioni, consustanzialmente ad una cosa potenzialmente positiva (il sacrificio di Ymir per la formazione del mondo) anche fatto negativo: il risentimento dei giganti che saranno avversari durante tutto il ciclo della schiera divina e la sfideranno nel Ragnarok, annientandosi a vicenda. Ancora una volta il bene non esiste senza il male e viceversa. L’importante è che il tempo scorra, che il fato si compia, che ognuno adempia al proprio compito, sia esso un dio, un gigante o un uomo, con nel cuore “la fede nella vita nonostante tutto, nonostante la coscienza della tragicità di essa” (Hermann August Korff), massima che racchiude tutto il fulgore della religiosità indoeuropea.



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