di:Roberto Pecchioli
Mancano pochi giorni alla fine del 2018, l’anno dei centenari. Un secolo
fa finiva il massacro della prima guerra mondiale che concluse la
secolare storia degli imperi europei, inaugurò l’egemonia americana e il
tramonto dell’Europa. Nello stesso anno terminò nel sangue la vicenda
umana della monarchia zarista, con l’uccisione dello zar Nicola II
Romanov e dei suoi familiari a Ekaterinenburg e si consolidò la
rivoluzione bolscevica in Russia. Nel 1918 veniva alla luce a
Kislovodsk, cittadina della Russia europea meridionale alle pendici del
Caucaso, Aleksandr Solzhenitsyn, il grande scrittore premio Nobel,
autore di Arcipelago Gulag, drammatica opera di denuncia della
repressione nel sistema comunista sovietico.
In questo tempo immemore, l’Italia
ufficiale ha pressoché cancellato la memoria dei tre anni e mezzo di
guerra di trincea, la disfatta di Caporetto dell’autunno 1917 e la
successiva vittoria del novembre 1918. Poco ricordata è anche la
gigantesca figura di Solzhenitsyn, testimone della storia, potente
scrittore e autentico profeta della verità. Le università milanesi,
Cattolica e Statale, hanno meritoriamente dedicato al grande uomo di
cultura due convegni di studio nel novembre scorso, nel decennale della
morte, avvenuta a Mosca, dove era tornato dopo la “riabilitazione” nel
1994. Il grande storico francese François Furet disse, in occasione
della pubblicazione di Arcipelago Gulag, che il mondo non sarebbe stato
più lo stesso: avremmo vissuto un prima e un dopo Solzhenitsyn.
Ci piace ricordare una frase tratta da
Una giornata di Ivan Denisovic, il suo primo importante racconto
dell’universo concentrazionario sovietico. Un detenuto si rivolge così a
un pezzo grosso del partito: ad un uomo a cui avete tolto tutto, non
potete togliere più niente: è di nuovo libero. Letteratura e verità. E’
impossibile separare i due elementi nell’opera e nella biografia del
grande russo, maestro di intensa spiritualità, intransigente
anticomunista ma altrettanto fermo oppositore della deriva relativistica
del liberalismo occidentale, che attaccò nel famoso discorso
all’università di Harvard del giugno 1974, dopo quattro anni vissuti tra
i monti del Vermont, a pochi mesi dalla travagliata uscita in Francia
di Arcipelago Gulag.
Oltre l’inferno comunista, al di là
della descrizione dei Gulag, la straordinaria lezione di Solzhenitsyn
resta quella di un profeta che si è addentrato nelle più assolute
profondità ed è uscito dal ventre del mostro per testimoniare la dignità
dell’essere umano unitamente alla difficoltà di custodirla. Riuscì a
fondersi, attraverso la scrittura, con l’anima profonda del suo popolo,
ed è nella sua ampia letteratura che ne comprendiamo l’elevata statura
di profeta di verità, più che mai necessario nel nostro secolo che ha
dimenticato Dio. Solzhenitsyn è stato l’ultimo vero grande del secolo
passato.
Al di là di Arcipelago Gulag,
Solzhenitsyn teneva particolarmente alla sua ultima, monumentale opera,
la tetralogia intitolata La ruota rossa, migliaia di pagine di
riflessione storica, filosofica e morale in forma di romanzo sugli
eventi che, dall’inizio della prima guerra mondiale portarono alla
rivoluzione bolscevica. Il primo volume, Agosto 1914, pubblicato nel
1972, dallo stile nervoso, quasi cinematografico, visivo e documentale,
contiene un passo assai significativo dell’universo morale dello
scrittore. Un giovane intenzionato a presentarsi volontario per la
guerra contro la Germania raggiunge Jasnaia Poliana, la residenza di Lev
Tolstoj. Il suo desiderio è chiedere al grande romanziere quale sia il
fine dell’uomo sulla terra. La risposta è netta: “Servire il bene. E
solo così creare il regno di Dio in terra.” Con l’ amore? insiste il
ragazzo. Sì, solo con l’amore, conferma il vecchio.
Anni dopo, nelle sue Memorie,
Solzhenitsyn rivelò di avere spedito un manoscritto microfilmato di
Agosto 1914 alla figlia di Tolstoj, Alexandra, negli Stati Uniti,
nascosto nel dorso di un libro. Non conosceva nessuno in Occidente, ma
era certo che la figlia dell’autore di Guerra e Pace e Anna Karenina lo
avrebbe aiutato. Il filo della continuità spezzata del popolo russo, la
sua antica energia morale diffusa dai suoi grandi figli, emerge da
questo episodio come nel commovente racconto di intima spiritualità La
casa di Matriona. L’io narrante, Ignatic, insegnante di matematica (lo
stesso Solzhenitsyn era laureato in matematica) fa ritorno in Russia nel
fatidico 1953, anno della morte di Stalin e anche della liberazione
dello scrittore dopo otto anni di prigionia, va a vivere nella povera
isba di una vecchia sola, Matriona, un po’ strana, di reputazione
dubbia, ma buona e religiosa, la personificazione della Russia eterna e
santa. Alla sua morte, tutto cambia e l’ultima riflessione con cui si
chiude il libro è un grido d’amore e di rimpianto: “le eravamo vissuti
tutti accanto e non avevamo compreso che lei era il Giusto senza il
quale, come dice il proverbio, non esiste il villaggio. Né la città; né
tutta la terra nostra. “
Profeta è colui che conosce e svela la
verità in anticipo. Solzhenitsyn fu un testimone di verità con tutta la
sua esistenza, le scelte difficili, la schiena mai piegata dinanzi al
Male. Dopo l’esilio, con altrettanta intransigenza fu profeta
inascoltato della decadenza dell’Occidente, il mondo orgoglioso ma in
frantumi che l’aveva accolto senza capirlo, preso dalle idee alla moda,
dalla negazione di Dio, dalla futile “tendenza a prosternarsi davanti
all’uomo e ai suoi bisogni materiali”, immerso nella dittatura
dell’individuo in un clima di ingiustificata euforia al quale dedicò una
riflessione fulminante: tanta allegria, e perché poi?
Solzhenitsyn fu anche uno straordinario
profeta della volontà. Trascorse anni con l’idea fissa di scrivere,
senza riposo, in ogni luogo possibile, durante le marce, nel campo di
prigionia, ai lavori forzati, memorizzando tutto e bruciando qualunque
traccia di scrittura per sottrarla agli aguzzini. Bisogna immaginare
quest’uomo che scrive nelle condizioni più estreme e con i mezzi che
riusciva a procurarsi, per dare testimonianza dell’inferno che stava
vivendo. Da questo impegno nacquero Una giornata di Ivan Denisovic, di
cui Kruscev, successore di Stalin, dopo mille esitazioni consentì la
pubblicazione e poi il monumentale Arcipelago Gulag, una vera e propria
bomba contro il regime comunista. La parola stessa, gulag, acronimo per
Direzione principale dei campi di lavoro correttivi, entrò nel
vocabolario comune. Nell’affresco della Ruota Rossa restano memorabili
il monologo di Lenin in Aprile 17, preceduto dal ritratto del capo
rivoluzionario, mentre la figura di Stalin è descritta in modo
indimenticabile nel romanzo Il primo cerchio.
L’amore di Solzhenitsyn per la patria fu
straordinario. Non volle andare a Stoccolma per ritirare il premio
Nobel, nel 1970, per il timore di non poter rientrare. Una delle
riflessioni più importanti della sua opera fu l’analisi dello
straordinario alone positivo di cui era circondato il comunismo in
Occidente nonostante l’evidenza. La sua conclusione è illuminante:
uguali sono le radici profonde dell’umanesimo secolare e del comunismo,
identico il materialismo, parallela la carica irreligiosa e la pretesa
di costruire il paradiso in terra.
La storia di Arcipelago Gulag è essa
stessa un romanzo. L’autore ci lavorò per almeno cinque anni durante
giornate interminabili, richiamando alla memoria quanto annotato negli
anni di prigionia, nascondendo il materiale sempre in posti diversi,
come diversi furono i luoghi dove scrisse. Nelle sue memorie rivela:
“devo chiarire che le diverse parti del libro non sono mai state sul
medesimo scrittoio nello stesso tempo”. Duramente provato dalla
repressione, fu al punto di abbandonare l’impresa, ma i documenti che
gli pervenivano clandestinamente da altri oppositori lo persuasero a
resistere. Arcipelago è in effetti la testimonianza individuale e
collettiva di ben 227 prigionieri, gli zeks nel linguaggio carcerario.
Alla fine, il libro fu pubblicato a
Parigi alla fine del 1972, seguito in patria da una lettera aperta ai
dirigenti sovietici in cui Solzhenitsyn invitava il regime ad
abbandonare l’ideologia marxista leninista. Lo scandalo fu immenso, lo
scrittore fu arrestato alla Lubianka e poi deportato in Germania con la
famiglia. Un nobile contributo di verità fu la sua convinzione che in
ogni angolo del mondo l’uomo un giorno può vedersi ridotto alla perdita
della coscienza e alla completa sottomissione. E’ solo per caso,
talvolta, se si è vittime e non carnefici, e questo è uno dei temi dei
tre intensi saggi dal titolo Rivoluzione e menzogna, in cui il grande
profeta della verità, il dissidente “spirituale” attinse straordinarie
vette morali. Vivere senza menzogna, il primo dei tre, uscì lo stesso
giorno della sua espulsione dall’URSS. Per combattere il totalitarismo,
l’unica arma vincente è la verità. E se non si è capaci di dire il vero
per timore del carcere e delle conseguenze, aggiunge, si deve quanto
meno evitare che dalle nostre labbra escano menzogne.
Si tratta di una delle massime apologie
della verità dell’intera letteratura. I dirigenti totalitari esigono che
ci incorporiamo al loro mondo di falsità, sino a difendere con
entusiasmo la bugia “ufficiale”. Temono un’unica cosa, che noi non lo
facciamo, poiché “quando l’uomo volta le spalle alla menzogna, questa
smette immediatamente di esistere”. La chiave della nostra liberazione è
“il rifiuto di partecipare personalmente alla menzogna”. Agli uomini
non animati dallo stesso suo coraggio rivolge una preghiera: “se non ci
arrischiamo a dire quel che pensiamo, almeno non diciamo ciò che non
pensiamo”.
Nell’ultimo dei tre saggi, scritti in
America all’inizio degli anni Ottanta, Due rivoluzioni, Solzhenitsyn
cercò di stabilire similitudini e differenze tra due grandi eventi che
hanno cambiato il mondo, la rivoluzione francese e quella russa.
Entrambe ebbero un nucleo moderato, i girondini in Francia e i il
partito dei cadetti in Russia, e un gruppo terrorista, i giacobini e i
bolscevichi. Tutte e due, a un certo momento, virarono a sinistra e finì
per imporsi il terrore. In entrambe venne cambiato il calendario, si
perseguitò la chiesa e si demonizzarono i cristiani. Soprattutto, la
comune arma rivoluzionaria fu la pratica della falsità. Bugie tanto
persistenti da rendere ciechi milioni di europei e di occidentali nel
giudizio sull’ideologia marxista leninista. L’unica via attraverso la
quale si può sfuggire alle pretese totalitarie è vivere senza mentire.
Questa è la grande lezione di Solzhenitsyn, più potente e sofferta della
testimonianza di un Orwell, adesso ancora più attuale dinanzi alla
menzogna neoliberista e all’imposizione dello schema mentale
autocensorio del politicamente corretto, totalitarismo light dell’occidente terminale.
La grandezza di Arcipelago Gulag risiede
altresì nell’aver reso evidente che la violenza repressiva era
l’essenza del comunismo. Troppi inferni edifica l’uomo quando pretende
di costruire paradisi ideologici. Una vittima innocente del libro fu
Elizaveta Voronskaya, la dattilografa che copiò molte opere di
Solzhenitsyn. Arrestata e torturata, crollò e rivelò dove era nascosta
una copia del libro. Liberata, la poveretta si suicidò. Subito dopo,
Solzhenitsyn diede via libera alla pubblicazione di Arcipelago in
Occidente, il cui testo era avventurosamente pervenuto microfilmato in
Svizzera.
Lo scandalo fu enorme in Russia, l’ira
del Cremlino provocò una riunione straordinaria del Politburo del
partito. La Pravda (che significa verità!), organo del regime, definì il
libro calunnioso, frutto di una mente malata, pieno di “ciniche
falsificazioni inventate per servire le forze della reazione
imperialista”. Un perfetto esercizio di bispensiero orwelliano, la
deliberata inversione della verità, una prova in più della natura
disgustosa e totalitaria del comunismo. Accusato di tradimento, lo
scrittore fu arrestato, privato della cittadinanza ed espulso. Non lo
uccisero come sarebbe accaduto negli anni di Stalin per timore dello
scandalo internazionale, ma il suo lavoro era compiuto, con l’enorme
prezzo personale pagato sin dal 1945, anno del suo primo arresto,
accusato di aver parlato male dei dirigenti del PCUS.
Arcipelago Gulag fece scoprire al mondo,
o almeno a chi ebbe occhi e dignità per vedere, non tanto i dettagli
del sistema concentrazionario, non solo la sofferenza di milioni di
esseri umani (secondo la storica Anne Applebaum passarono per i campi di
prigionia diciotto milioni di persone dal 1921 agli anni 70) ma la sua
ragione di essere, l’ideologia marxista leninista. Ci furono altre
testimonianze, come quella di un libro collettivo degli anni 50, Il Dio
che ha fallito, ma sempre l’autodifesa comunista fu di attribuire alla
persona di Stalin le malefatte che al contrario iniziarono con Lenin ed
erano la sostanza stessa del sistema. Morte e origine del terrore era
l’ideologia, non un singolo dirigente malvagio e sanguinario, eppure non
si riusciva a scalfire il prestigio del comunismo presso uomini di
cultura e leader di opinione.
Significativo fu un viaggio in Spagna di
Solzhenitsyn nel 1976, l’anno successivo alla morte di Franco. Preso
atto che nel paese si poteva leggere la stampa internazionale, risiedere
ed emigrare liberamente, fotocopiare senza restrizioni ogni testo, lo
stupore del russo a sentir paragonare la morente dittatura iberica
all’Unione Sovietica suscitò attacchi violentissimi. Uno scrittore
spagnolo, Juan Benet, comunista radical chic affermò: “finché
ci saranno persone come Aleksandr Solzhenitsyn, i campi di
concentramento esisteranno e devono sussistere. Magari dovrebbero essere
sorvegliati meglio, affinché quelli come lui non ne possano uscire”.
Fosca, rivoltante sincerità rossa.
“Non possiamo affermare che tutti gli ebrei sono bolscevichi. Ma: senza gli ebrei non ci sarebbe mai stato il Bolscevismo. Per un ebreo nulla è più offensivo della verità. I terroristi ebrei eccitati dal sangue hanno ucciso sessantasei milioni (di persone nda) in Russia dal 1918 al 1957”.
Se l’opera di S. è gigantesca sul piano
morale, profetica nella costante affermazione della verità, importante è
anche la suggestione letteraria dei suoi scritti e racconti, tra i
quali, oltre alla citata Casa di Matriona, va ricordato Padiglione
Cancro, la storia di un gruppo di pazienti oncologici in un ospedale
dell’Asia centrale. Parzialmente autobiografico, poiché S. si ammalò
davvero di tumore negli anni di prigionia, è un ritratto di chi si era
adattato al regime o ne aveva beneficiato, un’esplorazione della
responsabilità morale delle generazioni che non mossero un dito nei
tempi delle “purghe”, degli assassini di massa e delle deportazioni.
La figura di Solzhenitsyn non è mai
stata amata in Occidente; anticomunista, credente cristiano, nemico del
materialismo liberale, non gli fu perdonato, dopo Harvard, di essere
stato profeta del nostro disfacimento morale. La verità fa male, specie
al fragile uomo del tramonto, spiritualmente già morto. “Se l’uomo fosse
nato, come sostiene l’umanesimo, solo per la felicità, non sarebbe nato
anche per la morte”. La speranza di rinascimento spirituale ha un’unica
via, “andare più in alto “. Parole indigeste per il materialismo
consumista, fratello del collettivismo, simili a quelle di un altro
grande esule russo, il filosofo Nikolay Berdjaev, secondo cui il senso
dell’agire morale “non è ostacolare il movimento in alto o in avanti, ma
nel contrastare il moto all’indietro e verso il basso, il buio caotico,
il ritorno allo stato barbarico”. Parole che riguardano l’opposizione
al comunismo tanto quanto la regressione neoliberale, consumista e
transumana.
Non si può rendere omaggio al grande
profeta di verità che fu Aleksandr Solzhenitsyn senza unirlo nella
memoria a un’altra limpida figura di intellettuale e uomo di fede russo,
il matematico, filosofo della scienza e sacerdote ortodosso Pavel
Florenskij, fucilato dal regime comunista nel 1937. Convertito al
cristianesimo dopo la lettura della Confessione di Tolstoj, fu uno
straordinario scienziato e pensatore, che ha lasciato testi come La
colonna e il fondamento della verità e le lettere dalla prigionia dal
titolo Non dimenticatemi. Testimone e profeta di verità quanto
Solzhenitsyn, un suo brano è il suggello dell’orma che la migliore
cultura russa del Novecento lascia a noi posteri incerti malati di
nichilismo. “Tutto passa, ma tutto rimane. Questa è la mia sensazione
più profonda: che niente si perde completamente, niente svanisce, ma si
conserva in qualche modo e da qualche parte. Ciò che ha valore rimane,
anche se noi cessiamo di percepirlo.”
White Wolf,che ne pensi dei vvaccini-autismo,e dei vaccini in generale,vorrei una sua opinione.Grazie
RispondiEliminaAdmin moon
Grande uomo.Grande coraggio.
RispondiEliminaBuon anno a tutti e che il 2019 sia un anno da lupi!
RispondiEliminajj