di: Ilaria Bifarini
Ma quando si è creato il fardello del
debito pubblico italiano? Tutto parte nel 1981, in cui accade un evento
epocale, che fa da spartiacque nella storia della sovranità economica
italiana: il famoso divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro.
Con un atto
quasi univoco, cioè una semplice missiva all’allora governatore della
Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, Andreatta mette fine alla
possibilità del governo di finanziare monetariamente il proprio
disavanzo.
Rimuovendo l’obbligo allora vigente da parte di Palazzo Koch
di acquistare i titoli di Stato emessi sul mercato primario, la Banca
d’Italia dismette il ruolo di prestatrice di ultima istanza.
D’ora in
poi, per finanziare la propria spesa pubblica, l’Italia deve attingere
ai mercati finanziari privati, con la conseguente esplosione dei tassi
d’interesse rispetto
a quelli garantiti in precedenza. Ma non solo: viene rivisto il
meccanismo di collocamento dei titoli di Stato, introducendo il
cosiddetto «prezzo marginale d’asta», che consente agli operatori
finanziari di aggiudicarsi i titoli al prezzo più basso tra quelli
offerti e, quindi, al tasso di interesse più alto. Ad esempio, se
durante un’emissione di 50 miliardi di Btp, 40 vengono aggiudicati a un
rendimento del 3%, mentre il restante al 5%, alla fine tutti i 50
miliardi saranno aggiudicati al 5%!
Spread e debito pubblico: fanno ormai
parte delle nostre vite, ne sentiamo parlare continuamente,
ossessivamente, tanto da preoccuparcene più della disoccupazione
giovanile a livelli inverosimili e di una mancata crescita che ormai ci
sta traghettando dalla crisi alla recessione. Eppure l’opinione pubblica
ha talmente interiorizzato la narrazione mercato-centrica del
mainstream che non sembra credere ad altro: siamo stati spendaccioni e
irresponsabili (PIIGS) e dobbiamo dunque espiare le nostre colpe con una
giusta dose di rigore e disciplina. Dunque l’austerity è la giusta –
nonché unica – strada da percorrere, così come vuole l’approccio
dogmatico del modello economico neoliberista, il tatcheriano «tina»,
there is no alternative. Abbiamo un debito pubblico intorno al 130% del
Pil, secondo in Ue solo a quello della Grecia, per cui meritiamo la
condizione di sorvegliati speciali di Bruxelles e di essere dunque
defraudati di una nostra politica fiscale autonoma (di quella monetaria
siamo già stati privati). È la strada indicata dalla «virtuosa»
Germania, esempio di disciplina e rispetto delle regole per noi
italiani, così dissoluti e un anche un po’ scostumati.
Gli effetti sono tanto disastrosi quanto
immediati: l’ammontare di debito, che nel 1981 era intorno al 58,5%,
dopo soli tre anni raddoppia e nel 1994 arriva al 121% del Pil. Come
riportato dallo stesso Andreatta alcuni anni dopo, questo stravolgimento
strutturaleera necessario per salvaguardare i rapporti tra Unione
europea e Italia, e per consentire al nostro Paese di aderire allo Sme,
ossia l’accordo precursore del sistema Euro. Quando l’Italia fa il suo
ingresso nell’Euro non risponde ai parametri del debito pubblico
richiesti da Maastricht, ma l’interesse politico e l’artefatto
entusiasmo generale per la sua partecipazione hanno la meglio. Sarà la
crisi del 2008 a far emergere tutti i limiti e la fallimentarietà di
un’area valutaria non ottimale e insostenibile come l’Eurozona:
l’Italia, come altri Paesi, senza la possibilità di ricorrere alla
svalutazione del cambio, non riesce a recuperare terreno. Il debito
pubblico, che finora era rientrato in una fase discendente, passa dal
102,4% al 131,8% del 2017. Una crescita notevole, ma di gran lunga
ridimensionata se paragonata all’incremento del debito pubblico di altri
Paesi dell’area Euro, come Spagna, Portogallo e la stessa Francia.
Nello stesso arco temporale, infatti,
Madrid ha visto il suo debito pubblico schizzare dal 38,5% al 98,3%, il
che significa un tasso incrementale di circa il 150%! La crisi non ha
risparmiato neanche il vicino Portogallo, che è arrivato lo scorso anno a
un livello del debito molto vicino al nostro (125,7%), partendo da un
«contenuto» 71,7% del 2008. Eppure i due Paesi iberici hanno sforato
ripetute volte il famigerato vincolo del 3% – parametro tanto
assiomatico quanto infondato –, permettendo così all’economia di tornare
a crescere, a differenza di quella italiana che si è incamminata nel
percorso distruttivo dell’austerity. Situazione analoga per la Francia,
con un valore del debito pubblico allo scoppiare della crisi inferiore
del 70% e che oggi si aggira intorno al 100%, ma senza che ciò le abbia
impedito di aumentare la spesa pubblica e il deficit di bilancio,
assicurando in questo modo la crescita del Pil.
Dunque, sintetizzando,
il nostro famigerato debito pubblico è sì più elevato, ma è partito da
una situazione di evidente svantaggio, ed è cresciuto in termini
percentuali del tutto in linea con l’andamento
degli altri Paesi dell’Euro a seguito della crisi; anzi, anche meno di
altri, come abbiamo visto, e aggravato dalle politiche di austerity, i
cui effetti deprimenti sull’economia sono conclamati. Rimane il problema
dei tassi d’interesse (da cui il famigerato spread), da noi più elevati
che altrove, proprio a causa delle modalità dei meccanismi di
collocamento dei titoli di Stato introdotto a seguito dell’epocale
divorzio tra i due istituti finanziari italiani.
È stato stimato che in trent’anni
abbiamo pagato la colossale cifra di 3mila miliardi di interessi sul
debito pubblico! In queste circostanze a nulla valgono gli sforzi
fiscali dell’Italia, che registra da quasi trent’anni avanzo primario,
ossia quella situazione, del tutto antisociale, per cui lo Stato incassa
più di quanto spende, esclusi gli interessi sul debito pubblico. Per
onerare il costo del debito, ossia quell’assurda creazione del denaro
dal denaro, vengono sottratte risorse finanziarie per servizi pubblici e
sostegno alla popolazione in difficoltà. Dunque, una redistribuzione al
contrario, dai cittadini ai mercati finanziari. Il tempo delle riforme è
ormai improcrastinabile.
Fonte articolo
No non il tempo delle riforme ma il tempo delle de-riforme, cioè rimettere ordine nelle regole dell'economia seguendo la strada che più o meno tutti sappiamo a partire dal nuovo indissolubile matrimonio fra ministero del tesoro e banca d'Italia rifondata che dovrà essere garantito costituzionalmente in un articolo che dovrà essere nei primi 5, in modo che qualsiasi pischello che va a scuola possa essere obbligato a impararne a memoria almeno i primi 10 perché le fondamenta della giustizia sociale passano per il sistema educativo e come ben sappiamo contano di più i "customs" come dicono gli anglosassoni che le leggi.
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