Quando il popolo tedesco la fece finita con il dominio ebraico nel nostro paese, si liberò della schiavitù economica,spirituale e politica di una razza di sangue differente, e per ciò estranea a noi.
Ma la questione ebraica non è solo una questione del popolo tedesco. Lo sviluppo degli eventi nel mondo rileva a tutti quelli che non vogliono fuggire dalla verità, che la questione ebraica, già da molto tempo, è divenuta una questione di tutta l'umanità.
La pace tra i popoli del mondo si potrà raggiungere solo se si capirà chi trae beneficio di mettere in guerra i popoli tra di loro.
Chi si è svegliato sà che senza soluzione alla questione ebraica, non c'è salvezza per l'umanità.
Julius Streicher, 1936
di: Roberto Pecchioli
Un immigrato moldavo, padre di famiglia,
 uno che lavora come può nonostante diabete e cardiopatia, e cerca di 
tenere sotto controllo la famiglia che si sfascia a causa 
dell’emigrazione, si dice sbalordito che gli italiani accettino senza 
vere reazioni l’invasione degli africani promossa e favorita da governo e
 clero, non reagiscano dinanzi a tutto ciò che hanno davanti agli occhi e
 che, oltretutto, pagano di tasca propria. Mette tutto ciò a confronto 
con la Russia, che pure non ama, e fa un facile pronostico: l’Italia è 
spacciata.
L’Istat diffonde i dati demografici 
finali dell’anno 2015, dai quali emerge una ulteriore flessione della 
natalità. Il record negativo del 2014 è polverizzato: altri 15mila 
italiani mancano all’appello. La grande sostituzione della popolazione, 
tuttavia, non è affidata agli immigrati presenti da tempo sul 
territorio. Anche loro, una volta insediati nel Bel Paese, evitano di 
procreare. Le immigrate in età fertile hanno meno di due figli a testa, 
contro la media di 2,40 di cinque anni prima, al di sotto della soglia 
di 2,10 che è il minimo per mantenere stabile la popolazione.
Un giovane insegnante elementare 
racconta dell’incredibile attitudine delle sue colleghe che non solo 
rifiutano di allestire il presepe a scuola, ma sono contrarie anche 
all’albero di Natale ed all’iconografia di Babbo Natale, in quanto 
evocherebbero la festività cristiana, con danno psicologico per i bimbi 
di altre culture ed in spregio della cosiddetta laicità delle 
istituzioni. Sembra incredibile, ma solo due generazioni fa i genitori 
parlavano dell’arrivo di Gesù Bambino.
Odio di sé, autorazzismo, denatalità. 
Tra stazioni di una Via Crucis che ha un denominatore comune nel 
progressivo declino della nostra civiltà, la lunga interminabile 
vecchiaia di un gigante bimillenario, che, come aveva intuito Emil 
Cioran già alla metà del secolo trascorso, non può morire di colpo, ma 
agonizza nell’indifferenza dei più. E poiché chi è sradicato, sradica a 
sua volta, e chi non crede più nel futuro trascina nel pessimismo anche i
 “nuovi italiani”, risulta ormai anacronistico anche parlare di una 
civiltà “nostra”.
La prima persona plurale, il pronome 
noi, è ormai abolito, anzi espunto dal lessico contemporaneo. Solo un 
lungo elenco di individui falsamente liberi, emancipati, liberati, nudi,
 destinati all’angoscia dell’uomo senza lineamenti dell’Urlo di Munch o 
alla stranita contemplazione del nulla del Viandante sul Mare di Nebbia 
di Kaspar David Friedrich. Una delle caratteristiche fondamentali di 
questo tempo (resta grande la tentazione di chiamarlo ancora “nostro”) è
 l’assenza di verità, anzi l’orrore per la verità. Sfrattata dalla 
libertà, la verità si rifugia nelle fenditure, cerca di resistere al 
politicamente corretto, all’eufemismo, all’umanitarismo spurio, alla 
“contaminazione” tanto amata dai contemporanei. Hans-Georg Gadamer parlò
 di ermeneutica, quindi di interpretazione, come surrogato filosofico 
della verità, pur intitolando Verità e metodo il suo opus magnum, ma il fallimento è palese.
Altri, come la teologia neo cattolica, 
hanno sfrattato la verità in favore di un amore universale non meglio 
identificato. Non poteva finire diversamente. Constatare che le radici 
fondamentali del continente Europa sono quelle cristiane è evidenza 
storica, ma non è opportuno affermarla ed ancor meno è una verità 
creduta. Giovanni Sartori, sociologo liberale, insospettabile di 
fondamentalismo, scrisse che quando non risulta opportuno dire le cose 
che si pensano, si finirà col non pensarle più. Questo è un punto 
fondamentale dell’odio di sé che si trascina in autorazzismo: ogni idea 
si disperde nel conformismo, le identità, tanto più se culturali, 
religiose o etniche si dissolvono se non più condivise, vissute, 
introiettate.
 Il padrone judeo e il servo catto-judeo
In questo senso, è normale che le 
maestrine figlie dell’istruita ignoranza della scuola di massa rigettino
 presepi e tradizioni religiose o civili del popolo italiano. 
Semplicemente non le riconoscono né le capiscono in nome del relativismo
 inoculato loro dagli anni Settanta in dosi industriali. Se l’unico 
assoluto, il solo principio veritativo è che non esiste una verità, ma 
semplicemente, ermeneuticamente ciò che ciascuno ritiene tale, esprimere
 qualunque convinzione forte è proibito in nome dell’ossessione delle 
sensibilità altrui e del non detto apertamente, ovvero l’opinione che 
non esista alcuna verità, eccetto quella delle formule 
tecnoscientifiche. A questo è ridotta l’identità degli europei e degli 
occidentali, alla negazione compulsiva, al rifiuto patologico di sé.
Vivere secondo le proprie usanze ed idee
 è consentito solo all’Altro. A noi è permessa, anzi imposta la 
fuoruscita da noi stessi. In Spagna è ormai severamente proibito il 
gioco secolare dei fanciulli “mori contro cristiani”, nonostante 
l’identità di quel popolo si sia formata proprio nella Reconquista, la 
secolare lotta degli spagnoli contro il dominio arabo. Lo stesso San 
Giacomo, Santiago apostolo, patrono della nazione iberica, è adesso 
visto di cattivo occhio: la leggenda vuole che abbia partecipato alla 
battaglia di Clavijo contro gli invasori e uno dei suoi predicati è 
Matamoros. Eppure gli arabi erano invasori e, con l’occhio dei moderni, 
la riconquista dovrebbe essere catalogata come lotta di liberazione.
L’odio di sé prende le forme più 
disparate. Si passa dalla negazione della storia alla sua 
interpretazione più comicamente manichea. Millenni di cultura non furono
 altro che violenza, sopraffazione, menzogna. Poi ci colpevolizziamo di 
aver ottenuto più e prima degli altri il benessere materiale, che, 
semmai, è il frutto di studio, lavoro, impegno, intelligenza. Infine, ci
 sarebbero i crimini da espiare collettivamente per il colonialismo. 
Tale fenomeno, peraltro, coinvolse solo alcuni popoli europei, fu del 
tutto estraneo ai tedeschi ed ai russi, interessò solo marginalmente 
l’Italia, e, per quanto riguarda lo schiavismo, fu un fenomeno del mondo
 anglosassone e protestante. Lo stesso razzismo biologico è un costrutto
 culturale interno al positivismo della gentry britannica. No, siamo tutti colpevoli, e per sempre, ci tocca espiare.
Ma come si concilia tale follia con 
l’individualismo assoluto in cui siamo immersi? Come può un cittadino di
 Padova o di Friburgo in Brisgovia essere considerato responsabile, 
nell’era puntinista costituita di milioni di individui scollegati e 
deprivati di qualunque identità, di fatti che, comunque vadano valutati,
 non solo non ha commesso personalmente, ma non lo riguardano neppure 
come membro di una nazione? Ed ha senso una grottesca autoflagellazione 
se rifiutiamo l’eredità ricevuta? Se noi non siamo “quelli”, anzi ne 
abbiamo orrore, è ridicolo chiedere perdono notte e dì per ciò che 
riguarda i padri che abbiamo rifiutato, ammesso e non concesso che il 
loro mondo fosse tutto negativo.
I colpevoli principali sono due: da un 
lato la “nuova” chiesa cattolica, che mendica perdono al mondo intero 
piagnucolando ed affermando esplicitamente di avere sbagliato tutto 
nella propria storia bimillenaria, ed insinuando il dubbio anche nei 
fedeli più tenaci. Dall’altro la spregevole scuola di Francoforte, 
salita in cattedra per decenni negli Stati Uniti con figuri come Herbert
 Marcuse e Thomas Wiesengrund Adorno, neomarxismo borghese in salsa 
ebraica, con l’odio furente verso gli europei colpevoli della 
“personalità autoritaria”, spinti verso i paradisi artificiali, gli 
eccessi sessuali, il disprezzo per la verità e la conoscenza, ridotti 
alla figura dell’ “uomo a una dimensione”, che si è poi rivelata, per 
eterogenesi dei fini, quella del consumatore.
Con loro, si è rivelata verissima la 
vecchia massima secondo la quale chi paga i suonatori (il capitalismo 
post 1968) decide la musica, piegandola ai propri interessi. Un terzo 
elemento, che è un po’ la confezione esterna degli primi due, è il 
freudismo d’accatto, con la sua credenza senza prove che l’uomo non è 
che la sua libido, le forze infere e nascoste, talché tutto può
 essere letto in chiave pulsionale e anche la generosità, il coraggio, 
l’altruismo, il bene compiuto non sono che sublimazioni delle forze 
oscure di ciascuno. Se l’umanità è questa, l’umanità europea e bianca, 
beninteso, detestarla è quasi un dovere civico. Vide giusto Renan 
chiamando Marx e Freud maestri del sospetto. Il terzo sarebbe Nietzsche,
 ma il gigante solitario di Sils Maria tese davvero una corda tra la 
bestia e l’oltre uomo, consapevole della trappola in cui l’uomo d’Europa
 stava rinchiudendo se stesso. Infine, ciò che è fatto per amore, non è 
“al di là del bene e del male”, poiché la verità viene prima e comunque –
 ne fu consapevole il cantore di Zarathustra – bene e male esistono, con
 buona pace del nichilismo odierno, di cui per primo comprese gli esiti 
sino a perdere il senno.
Nell’odio di sé è compresa non la 
trasvalutazione nicciana di tutti i valori, ma la loro completa 
svalutazione. Di qui, il rancore sempre più profondo verso ciò che si è,
 la storia, i padri, e tutto ciò da cui si proviene. Un rigagnolo del 
transumanesimo: non abbiamo padri, siamo creatori di noi stessi, 
aborriamo essere eredi, dunque non vogliamo eredi.
Tutto questo oltrepassa largamente la 
prospettiva di società liquida indicata da un Bauman e ci conduce 
diritti alle generazioni ultime, quelle definite “millennials”,
 formatesi nel Duemila, i nativi digitali, cresciuti nel culto del 
nulla, dell’eufemismo obbligato, di quella che, alcuni decenni fa, Milan
 Kundera definì l’insostenibile leggerezza dell’essere. E’ la 
generazione che in America chiamano snowflakes, cristalli di 
neve, impalpabile, senza peso, una piuma o una canna al vento, priva di 
consistenza e di spina dorsale. In essa, convivono odio di sé, 
autorazzismo, egoismo, assenza di senso di responsabilità, unificati in 
una impressionante incapacità di riconoscere altro che se stessi e le 
folli menzogne ricevute. Una generazione amniotica, mai uscita davvero 
dal grembo artificiale di chi l’ha gettata nel mondo.
Negli Stati Uniti, lo choc per la 
vittoria elettorale di Trump ha determinato in molti e molte di loro 
crisi di nervi, crolli emotivi con l’intervento di psicologi e 
consulenti vari. Un secolo fa, i diciottenni europei vennero 
scaraventati tra le trincee nel macello che uccise il continente e diede
 avvio al secolo americano. Non ebbero consulenti, psicoterapeuti e 
consolatorie mani sulla spalla.
Tra i “millennials” fiocchi di 
neve è considerato disdicevole il semplice evocare tutto ciò che li 
dispiace. Soggetti a molteplici, sconcertanti traumi emotivi, se 
pronunciate in loro presenza la parola “razza” potreste doverli 
soccorrere con l’ausilio del defibrillatore. Niente di strano: è l’esito
 delle confortanti menzogne consolatorie in cui sono (dis)educati. Hanno
 orrore delle parole come il gatto dell’acqua. Un esempio: nel 1950 
l’Unesco consigliò in un documento ufficiale di “espungere totalmente il
 termine razza da discorsi che si riferiscono a razze umane, utilizzando
 invece il termine etnie”. Abolizione ufficiale delle parole sgradite, 
il politicamente corretto ante litteram.
Questi idioti degenerati e guardiani del politicamente corretto, definiti snowflakes (fiocchi di neve), mentre si disperavano perchè la loro criminale leader Hillary Clinton, aveva perso la competizione elettorale svoltasi l'8 novembre negli USA, che ha visto la vittoria di Donald Trump.
Abrogare la verità reca con sé il rifiuto della realtà, di quella che Tommaso chiamò, sulle piste di Aristotele,”adaequatio rei et intellectus”,
 la corrispondenza tra la realtà e l’intelletto. Massimo Fini notava 
recentemente il disuso della parola morte, sino all’incredibile “fine 
vita”.
Le razze, dunque, non esistono, o 
meglio, non è opportuno evocarle o chiamarle così. La bestia bionda 
potrebbe svegliarsi. Le etnie sono più sfumate, accettabili, quasi 
biodegradabili a patto di disinnescarne il potenziale di conflitto. 
Eppure il primo storico dell’umanità, Erodoto, definendo i Greci in 
opposizione ai barbari, attribuì loro la comunanza di sangue (vergognoso
 primitivismo!), la stessa discendenza (ahi, la tradizione),la lingua 
comune, la partecipazione agli stessi sacrifici e riti, i medesimi usi e
 costumi. A duemilacinquecento anni di distanza, nessuno è mai riuscito a
 fornire definizioni migliori, tanto meno la sociologia da quattro soldi
 dei mondialisti prezzolati dell’Onu e dell’Unesco.
Se poi le razze sono un’invenzione 
immonda di uomini spregevoli, non dovrebbe sussistere neppure il 
razzismo, in quanto fondato sul nulla. Al contrario, prendere atto, 
dichiarare l’esistenza di “razze” espone all’interdetto morale, 
all’isolamento culturale, all’ erezione di cordoni sanitari attorno al 
reprobo, e, da qualche decennio e con crescente intensità, al rischio di
 sanzioni penali. La psicopolizia veglia. Affermato che le razze non 
esistono, con l’imprimatur di Einstein il quale dichiarò 
solennemente di conoscere un’unica razza, quella umana, confondendo (ma 
era un fisico, non un sociologo…) specie con razza (o etnia? mah…) non 
si capisce perché dovremmo preferire i connazionali a chiunque altro. 
Connazionale, poi, riposto Erodoto in un angolo buio della biblioteca, è
 chiunque venga dichiarato tale da una legge. La legge crea, dichiara 
vero con un tratto di penna e la firma dei superiori ciò che fu sempre 
falso e viceversa: sono le delizie del positivismo giuridico.
Perché parlare di invasione da parte di 
stranieri non invitati, quando si tratta di “fratelli”? Un’altra 
menzogna, poiché, se tutti sono miei fratelli, siamo daccapo. Tutti 
fratelli, nessun fratello, come ad Alghero furono “todos caballeros” per
 proclamazione del re d’Aragona, ma nessuno, ovviamente, ebbe i 
privilegi del rango. Quindi, autorazzismo, autoflagellazione, noi siamo i
 cattivi, quando non si conosce alcuna civiltà o popolo sensato che non 
abbia preferito se stesso ed i propri figli a chiunque altro.
Quanto all’intimazione, specie di parte 
cattolica, di costruire ponti, anziché erigere muri, i popoli si sono 
sempre incontrati in luoghi chiamati frontiere, ma hanno saggiamente 
posto regole, limiti, costruito faticosamente linguaggi comuni. Non 
hanno mai pensato di rinunciare a se stessi, né hanno gettato ponti 
dinanzi a chi si mostrasse nemico o non riconoscesse un minimo di codici
 condivisi. Il disprezzo di se stessi, la debolezza, il dubbio sono 
sempre coincisi con le fasi finali delle civiltà, per saperlo non c’è 
stato bisogno delle scoperte di Spengler o di Toynbee. La sapienza 
profonda di Giambattista Vico chiarì tutto già dal primo settecento, 
senza i lumi francesi ed il commosso omaggio di Kant – un universalista 
che non si mosse mai dalla natia Koenigsberg- a chi aveva strappato 
l’umanità dall’infanzia culturale.
Intanto, i cristalli di neve avanzano e 
le società, da liquide diventano gassose. Chi non si ama più, ovviamente
 non si riproduce, per cui le culle si svuotano ogni anno di più. I 
figli sono responsabilità, tempo sottratto alla carriera, al 
divertimento, al consumo, alla smania individualista. Al centro 
commerciale i bimbi disturbano, anche se i gestori hanno apprestato per 
loro apposite aree con dipendenti precari a fare animazione, in molti resort
 turistici non sono ammessi o graditi, ancor meno nelle discoteche e 
negli altri locali dello sballo, della promiscuità sessuale e di altri 
vecchi e nuovi vizi.
L’egoismo è infettivo: anche gli 
stranieri evitano o limitano le gravidanze. Chi viene da noi spesso non 
sfugge la miseria, ma è attratto dai lustrini e dalle luci del varietà 
della nostra civilizzazione da luna park. Non sanno (ancora) che le luci
 si spengono, e, come cantava Mina tanto tempo fa, la musica è finita, 
gli amici se ne vanno. Che inutile serata, continuava il testo di Franco
 Califano, uno che ha bruciato talento e vita per morire solo e 
tutt’altro che ricco. Che inutile vita, quella di chi detesta se stesso 
ed è etereo, impalpabile come un fiocco di neve.
Il catalogo è questo. Prenderne atto 
significa recuperare la dimensione del dissenso radicale, della vita 
come lotta e milizia, della presa di distanza da quel che abbiamo 
attorno. Probabilmente questa nostra ex civiltà è finita 
irrimediabilmente sull’altare dell’individualismo, del consumo, 
dell’assenza di senso, ed è troppo tardi per rianimarla.
Proviamo ugualmente a credere ancora in 
tutto ciò che è nostro e perenne. Anche la notte più buia finirà, forse 
la sentinella idumea potrà portare la notizia dell’aurora ad un’altra 
generazione, e comunque, chi ama se stesso, chi ha il senso e la 
fierezza di sé, della propria gente e della propria razza non può finire
 come un fiocco di neve al primo disgelo. Il deserto potrà essere 
immenso, ma non ci inghiottirà con il nostro consenso.



Ciao wolf, questa domanda non c'entra molto con questo articolo..
RispondiEliminaHo appena rivisto il video su youtube "sulla servitu' moderna" e penso continuamente al futuro. .. sono molto giovane e se penso che, si mi piacerebbe avere una moglie, figli , ma non in questo sistema non in questo mondo..
Cerco di esplorare me stesso, mi isolo di sera e studio, cerco la verità è la saggezza . Capitava anche a te? Mi chiedo se poi quando mi sposerò farò la vita meccanica nella matrix come gli altri.. voglio sfuggire da questo.. aiutami con un Po di dritte.. non devo programmare niente.. ogni risposta è in se stesso?
Vi voglio bene, quando leggo te e gli altri nel gruppo non mi sento solo
Davide