di: Riccardo Rosati
Prerogativa dei
veri intellettuali è quella di essere sempre attuali. Una affermazione
di questo tipo può giustamente sembrare banale, ma ciò non ne diminuisce
la autenticità. In questa categoria di menti superiori, rientra a pieno
titolo Julius Evola. Già in passato, leggendo e studiando i suoi
articoli sull’Oriente, ci siamo accorti di quanto a tale filosofo calzi a
pennello l’aggettivo “profetico”. Avvicinandoci ai suoi scritti in
qualità di orientalisti, siamo rimasti colpiti, non solo per la
straordinaria competenza specifica di questo autodidatta, ma
specialmente per la sua capacità di andare oltre il limitante confine
del campo di studio settoriale, che imbriglia ormai da anni una
Accademia insterilita nel pensiero. Ancor più sorprendente si è rivelata
la lettura della sua raccolta di riflessioni sulla società
statunitense: Civiltà americana. Scritti sugli Stati Uniti 1930-1968, la quale è stata, e non è una esagerazione, una specie di folgorazione, quasi un satori, in virtù della visione premonitrice del filosofo.
Il lettore ci perdonerà ora un breve
accenno autobiografico. Abbiamo conosciuto il mondo anglosassone in
prima persona, venendo culturalmente da quella estrazione. Sin dalla
giovane età, un retaggio latino ci induceva a percepire un malessere nei
confronti di un sistema valoriale che tale non era. Passarono gli anni,
e mai abbiamo sentito, né letto, da parte di anglisti e americanisti
italiani parole che andassero minimamente a stigmatizzare quella civiltà
del sedicente progresso che ha plasmato il mondo moderno. Solo in Evola
abbiamo ritrovato la sopracitata competenza nella sostanza,
puntualmente assente tra gli specialisti. In sintesi, nel suo modo di
tracciare la soglia di non ritorno, così da salvare quel valore liminare
proprio alle società di stampo Tradizionale, Evola è stato capace di
raccontare perfettamente due mondi e i loro mali attuali. Da un lato,
quello anglosassone, segnatamente americano, portatore di una palese
entropia spirituale che nessuno è più capace di riconoscere. Dall’altro,
quello di un asservimento volontario dell’Italia a una mentalità che
non le appartiene. “Il re è nudo” si suole dire. Negli scritti che
andremo qui brevemente ad approfondire viene per l’appunto denunciato
questo.
Alberto Lombardo ha curato il volume
dove sono stati raccolti i contributi giornalistici di Evola sulla
America, che vennero pubblicati nell’ampio intervallo di tempo 1930 –
1968. Sarebbe troppo lungo citare i titoli dei singoli articoli presenti
in questo testo, benché francamente non se ne rinviene uno che non sia
degno di profonda attenzione. Due di essi meritano comunque di essere
segnalati, non tanto perché più importanti degli altri, ma per il fatto
che colgono delle tematiche centrali nella società italiana di oggi. Il
primo è Servilismi linguistici (Il Secolo d’Italia, 28
luglio 1964). Qui Evola bacchetta l’utilizzo da parte dei media di
quelli che in linguistica si chiamano “prestiti di lusso”, ovvero la
zelante ripresa di termini stranieri quando in una lingua ce ne sono già
di identici, con il risultato di andare a impoverire la comunicazione
della propria lingua madre. Molto acuta è inoltre la sua individuazione
di alcuni false cognates o più in generale false friends,
inconsciamente abusati dalla stampa nostrana. L’aspetto però che
maggiormente colpisce in questo articolo è la anticipazione dei pericoli
che si celano dietro la cosiddetta “neolingua”, il dogma della società
benpensante che governa l’Occidente. Evola irride questo buonismo nella
comunicazione, sottolineando che più che di rivendicazioni identitarie,
si dovrebbe parlare di abdicazione. Decenni or sono, egli aveva già
compreso come il Cavallo di Troia progressista stesse passando proprio
attraverso il linguaggio: “Uno dei più tristi spettacoli che, in vasti
settori, è presentato dall’Italia attuale è quello di una supina
scimmiottatura di tutto ciò che è americano” (p. 72).
Il secondo scritto si intitola La suggestione negra (Il Conciliatore,
aprile 1968). In piena Contestazione, con gli studenti di sinistra in
America che andavano rivendicando il diritto delle minoranze, senza
porsi il problema di trovare una identità comune, il filosofo italiano
sostenne senza mezzi termini che la sola forma di fertile convivenza è
possibile quando “ogni ceppo viva a sé”, e non certo covando sentimenti
astiosi, bensì “con rispetto reciproco” (p. 77). Sarebbe sufficiente
questa ultima affermazione per smontare, per la ennesima volta, la
faziosa e scorretta interpretazione del pensiero evoliano come razzismo tout court,
ignorandone in malafede la giusta esegesi. Una “selezione spirituale”,
questa era invocata da Evola, il quale mai giudicava l’importanza di una
civiltà in base ai danari custoditi nelle sue banche o alla altezza dei
suoi palazzi, bensì nella profondità del suo rapporto col mondo e la
Natura: “I pellirosse erano razze fiere, per nulla deteriori – e non è
un paradosso affermare che se fosse stato il loro spirito ad improntare
in misura sensibile quella forza psichica formatrice […] il livello
spirituale degli Stati Uniti sarebbe probabilmente assai più alto” (p.
63).
Non vi è dubbio che nel sacrosanto
tentativo di far uscire Evola dal ghetto politico nel quale è stato
confinato per tanti anni da una sinistra culturalmente egemonizzante,
alcuni studiosi non affini al Pensiero Tradizionale abbiano cercato di
“leggere” questo filosofo in una prospettiva nuova, ciò non vuole dire
automaticamente esatta. In particolar modo, secondo taluni ancora
radicati nella idea assolutamente inattuale di proletariato, che si
concretizza in uno scoordinato e impulsivo antiamericanismo, l’appoggio
dato a suo tempo da parte di Evola all’entrata dell’Italia nella NATO
nel 1949 ha rappresentato una palese contraddizione. Nulla di più
errato. Contrariamente alla opinione di alcuni giovani marxisti
suggestionati – chissà poi se in modo spontaneo o solamente per sembrare
originali e contro corrente – dal pensiero di Evola, egli ha ben
chiarito i motivi di questa sua presa di posizione: “Così il fatto che
materialmente e militarmente non possiamo per ora non appoggiarci allo
schieramento ‘atlantico’ non dovrebbe portarci a farci sentire fra noi e
l’America una minore distanza interiore di quella che ci separa dalla
Russia” (p. 67). Qui sta la differenza tra un antiamericanismo
destrutturato e quello evoliano, il quale è attento a ogni sfumatura
sociale e consapevole che per liberarsi dalla influenza statunitense non
servono le piazze, ma la rivolta di ogni singolo individuo.
In aggiunta, l’Unione Sovietica di un
tempo era giudicata dal grande filosofo della Tradizione pericolosa
soltanto sul piano materiale, mentre gli USA pure su quello spirituale
visto che essi sono stati capaci di imporsi nel “dominio della vita
ordinaria”. Trattasi di una differenza di primaria importanza, che
sarebbe stato opportuno tenere a mente in questi ultimi decenni,
incoraggiando così una analisi complessa del “male americano”, per dirla
con Alain de Benoist, che è un concetto trasversale in chiunque sia
consapevole di quella che Evola definì la “demònia della economia”; una
tesi intuita a suo modo persino da un marxista antimoderno come fu Pier
Paolo Pasolini, e che venne espressa nella sua celebre intervista
televisiva a Ezra Pound del 1968. Sempre de Benoist traccia il profilo
del “nemico principale”, reso ancor più forte da una notoria visione
europeista dell’americanismo, concepita come ideologia acritica
filo-statunitense. Lo studioso francese non ha dubbi su chi sia
l’avversario da contrastare.
“[…] il nemico principale è
semplicemente quello che dispone dei mezzi più considerevoli
per combatterci e riuscirci a piegare alla sua volontà: in altre
parole è quello che è più potente. Da questo punto di vista, le cose
sono chiare: il nemico principale, sul piano politico e geopolitico sono
gli Stati Uniti d’America”(Alain de Benoist, L’America che ci piace, in Diorama Letterario, n. 270, p. 3).
Va comunque chiarito che per de Benoist
si tratta di: “un avversario del momento”, e non della incarnazione del
male; qui sta la profonda differenza con una interpretazione di stampo
evoliano della questione. Ovviamente, si tratta di pensatori
appartenenti a epoche diverse: l’italiano viveva in un mondo bipolare,
sempre sotto la minaccia di una guerra nucleare; il transalpino, dal
canto suo, è conscio che bisogna – seppur a malincuore – rapportarsi con
una struttura politica di tipo europeo e con l’Occidente più in
generale, specialmente quando, come sta avvenendo, quest’ultimo è messo
in pericolo da un possente rigurgito di fanatismo islamico che potrebbe
minarne il futuro.
Non è un mistero che Evola abbia
spesso evidenziato come americanismo e bolscevismo siano facce di quella
stessa medaglia che è in netta contrapposizione con una concezione
tradizionale della esistenza. In breve, i primi due lavorano sulla
massa, mentre la seconda sull’Individuo. Non è perciò un caso che negli
articoli qui raccolti egli reiteri la somiglianza tra queste due forme
di totalitarismo. Per lui, l’“uomo americano” è un moderno schiavo, un
semplice “animale da produzione” (p. 54). Ma questo alla fine non è
anche un aspetto che ha connotato il Socialismo Reale? Nelle grandi
aziende statunitensi vige quella che Evola ricorda essere una
“managerial autocracy” (p. 55): un dispotico governo del guadagno,
alimentato dalla amministrazione delle vite dei dipendenti. Pure nei
regimi sovietici vennero create grandi industrie, allontanando l’uomo da
qualsivoglia forma di autodeterminazione. Tuttavia, il comunismo
perseguì questo annientamento dell’Io con sistemi prettamente
ideologici; gli americani, invece, camuffando una dittatura
economicistica dietro la bandiera della libertà, la quale cessa di
esistere non appena si diventa poveri. Questo è il paradosso della
democrazia americana esplicitamente messo alla berlina da Evola: una
struttura sociale assai più chiusa ed elitaria di quanto si è fatto credere alla opinione mondiale, grazie a dei media compiacenti.
Si è precedentemente accennato alla
complessità dell’antiamericanismo di Evola. Infatti, egli non cade nella
trappola banalizzante di una virulenta opposizione all’imperialismo
statunitense, e non certo perché questo non esista, ma per la semplice
ragione che non si tratta del vero problema, del motivo per il
quale lo sposare il modello di vita americano si sia rivelato letale per
i Paesi europei, e per l’Italia in particolare. Secondo Evola, quello
che caratterizza in profondità la società USA è la sua anima primitiva,
“negra”. L’immigrazione delle genti dall’Africa ha completamente
azzerato l’unico elemento culturale realmente positivo e autenticamente
americano: i paladini dei diritti umani lo definiscono col termine
dispregiativo di WASP (“White Anglo-Saxon Protestant”), quando
chi conosce in modo più accorto questa nazione lo individua come base
del movimento filosofico-letterario noto come Trascendentalismo
Americano; quello di Ralph Waldo Emerson e Henry David Thoreau, tanto
per intenderci. Sarebbe a dire, la sola espressione intellettuale
autoctona mai prodotta dagli Stati Uniti, in virtù della sua anima
inglese e protestante, che secolo dopo secolo è stata cancellata
dall’immigrato di colore. Evola considera persino la musica Jazz – da
tempo apprezzata in Occidente come Alta – quale involuzione verso uno
stato dell’essere selvaggio e istintivo, dunque primitivo.
In base a quanto detto sinora, non è
difficile comprendere come quelli messi assieme in questa raccolta
siano da giudicare degli autentici articoli di “difesa” non tanto contro
la invasione “fisica” – si pensi alle numerose basi statunitensi
dislocate sul nostro Paese – ma specialmente culturale americana; non è
appunto un caso che la maggior parte di tali scritti risalgano al
Dopoguerra, con l’Italia ridotta a un mero Stato vassallo all’interno
dello scacchiere geopolitico della NATO. La società in cui viviamo è
stata deformata, così da adattarsi a uno stile di vita palesemente
allogeno, con la complicità di governanti che lo hanno imposto come
unico modello di riferimento. Di ciò, Evola è assolutamente consapevole;
lo stesso non si può sfortunatamente dire del nostro Popolo.
In forza di una lettura approfondita del sistema americano,
Evola non manca praticamente mai di palesarne gli “stratagemmi” per
imporsi in modo transnazionale, dimostrando attenzione anche verso
taluni esponenti in possesso di una visione critica della modernità,
benché appartenenti allo stesso mondo anglosassone: è il caso del suo
riferimento al politico e studioso britannico James Bryce (1838 –
1922). Il filosofo italiano ne riporta una frase, “to mistake bigness
for greatness”, che sintetizza perfettamente il regno della quantità
instaurato in ogni settore della vita dalla cultura americana; persino
in uno così particolare quale la museologia, visto che l’arte vive ormai
di dimensione e numeri e non più di sostanza! Triste è prendere atto di
come nessuno dei cosiddetti specialisti abbia mai colto la essenza
della frase di Bryce che è sì breve, ma totalmente esaustiva
nell’esprimere quella che è per Evola: “[…] solo grandezza appariscente”
(p. 65).
Smascherare la democrazia, questo
sarebbe uno dei tanti modi per riassumere il senso ultimo di tali
articoli; cercare di andare oltre quello che ci è stato fatto credere,
così da scoprire una verità necessaria: “[…] se alla democrazia si
togliesse la maschera, se si vedesse chiaro in che misura la democrazia,
in America come altrove, è solo lo strumento di un’oligarchia sui generis
la quale segue il metodo dell”azione indiretta’ assicurandosi
possibilità di abuso e di prevaricazione assai maggiori di quelle che
comporterebbe un giusto sistema gerarchico lealmente riconosciuto” (pp.
57-58).
Può sembrare assurdo sostenere che la democrazia sia niente
altro che una moderna forma di schiavitù. Eppure, se si ha la volontà di
aprirsi al dubbio, alienando da sé il dogma del contemporaneo, cercando
risposte altre; in questo caso gli scritti evoliani di cui si è parlato possono fornire un prezioso strumento di liberazione individuale.
In conclusione, questa raccolta di testi dedicata alla (non-)cultura americana dovrebbe rappresentare a nostro avviso un livre de chevet
per chiunque senta la pulsione di emanciparsi dalla menomazione
spirituale imposta dall’odierno sentire comune. Per chi percepisce che l‘homo oeconomicus
propugnato dalla politica statunitense – nessun Presidente escluso –
sia niente altro che colui che si inginocchia: “[…] quando ammira
l’America, quando si fa impressionare dall’America, quando si
americanizza stupidamente ed entusiasticamente, credendo che ciò
significhi essere liberi, non retrogradi pronti a mettersi al passo con
la marcia inarrestabile del progresso” (pp. 65-66), allora non esiste
probabilmente libro migliore al quale rivolgersi che questo. Vero, per
Evola capitalismo e comunismo sono “lo stesso male”.
Vi è una
sostanziale differenza che va comunque rimarcata. È evidente a tutti
come il secondo sia stato sconfitto dalla Storia, sconfessato in ogni
sua forma. Per converso, il capitalismo è oggi più forte che mai e per
ostacolarlo in modo strutturato è necessario prima comprendere la
perversa sostanza di cui è composto. L’auspicio di Evola era quello di
riportare l’America al: “suo rango di provincia” (p. 71). Magari era ed è
una semplice illusione. Se però ognuno di noi si impegnasse in una
rivolta interiore e non ideologica; in questo caso, oltre alla forza
bruta, al modello americano non resterebbe altro (da Studi Evoliani).
di:Riccardo Rosati
(Julius Evola, Civiltà americana. Scritti sugli Stati Uniti 1930-1968, a cura di Alberto Lombardo, Controcorrente, Napoli 2010. € 10)
Sul blog che dragonerosso ha segnalato, non ricordo ora il titolo , ho letto che Evola viene criticato , sostanzialmente come un infiltrato rispetto a Hitler , può essere ? Si ponevano le differenze di pensiero in particolare sul concetto di razza , che per Evola era ''razza spirituale '' , un trucco a parere del blog.
RispondiEliminaMark
Una famiglia di 14 figli con il marito scappato di casa a Padova , abbandonati dallo stato , la madre ora chiede aiuto al comune ,hanno la sola colpa di essere italiani , mentre i gli italiani ''moderni'' , quelli del figlio unico o del figlio zero , li considerano retrogradi .
RispondiEliminaMark
Ci sono certi aspetti del pensiero di Evola interessanti e che condivido , ad esempio la critica al modernismo , al neospiritualismo , altri meno , altri ancora mi lasciano perplesso , prendiamo le caste , il suo concetto di alchimia riservato solo agli eletti ,il trantismo ecc..... E' vissuto ai margini del regime fascista , e nel dopoguerra il suo pensiero è servito come ingrediente di una certo neofascismo di retroguardia .
RispondiEliminaGli Stati Uniti sono uno stato artificiale che ha risvegliato un controllo negativo sull'umanità , nato sul genocidio del popolo indiano e sulla profanazione dei luoghi sacri indiani , l'america si conosceva già prima chi l'ha fatta nascere Cristoforo Colombo/ Cristobal Colon /templari , lo ha fatto per uno scopo . Neanche a me piace il jazz , preferisco il country e musica fatta con altri strumenti .
Mark