Autore: Filippo Burzio
Quando uno scrittore pone, ad epigrafe del capitolo conclusivo del
proprio libro fondamentale , le seguenti parole del De Maistre: «Bisogna
tenersi pronti ad un avvenimento immenso nell’ordine divino, verso il
quale marciamo con velocità accelerata» – e questo scrittore ha la
serietà di Evola, ci si può attendere che il suo libro non dica cose
banali. Evola sta svolgendo e popolarizzando ormai da anni, dalla pagina
filosofica quindicinale di Regime fascista, intorno al quale
si raccoglie tutto un gruppo di scrittori, un’attività, che si concretò
dapprima in difficili libri e in riviste per ristretti cenacoli: e tale
attività col pensiero che la informa, mi sembrano tra i più singolari e
significativi dell’ora presente.
Dire ch’essa rappresenti un indirizzo affine, sotto
qualche aspetto, al Nazismo (allo stesso modo che, al polo opposto,
l’atteggiamento delle riviste giovanili romane: Saggiatore, Oggi, Cantiere può definirsi più o meno filo-bolscevico) non è che un semplice schematizzare.
Vediamo qualche spunto del pensiero di Evola. Sua
tesi fondamentale è la negazione dell’idea di evoluzione e di progresso:
è, anzi, il concetto opposto, cioè è la natura decadente del mondo
moderno: «nulla ci appare assurdo come l’idea del progresso, col suo
corollario, la preminenza delle civiltà moderna». Opposta ad essa, la
civiltà «tradizionale»: «per comprendere, sia lo spirito tradizionale
che il mondo moderno in quanto negazione di esse, bisogna partire
dall’insegnamento circa le due nature. Vi è un ordine fisico e vi è un
ordine metafisico. Vi è la natura mortale e vi è la natura degli
immortali. Vi è la regione superiore dell’‘essere’ e vi è quella infera
del ‘divenire’. Vi è un visibile e un tangibile e, prima e di là da
esso, vi è un invisibile e un intangibile, quale sopramondo, principio e
vita vera… Il mondo tradizionale conobbe questi due grandi poli
dell’esistenza, e le vie che dall’uno conducono all’altro. Conobbe la
spiritualità come ciò che sta di là sia da vita che da morte. Conobbe
che l’esistenza esterna è nulla, se non è un’approssimazione verso il
sopramondo… Un mondo tradizionale conobbe la Divinità Regale. Conobbe
l’atto del transito: la Iniziazione – le due grandi vie
dell’approssimazione: l’Azione eroica e la Contemplazione – la
mediazione: il Rito – il grande sostegno: La Legge tradizionale, la
Casta – il simbolo terreno: l’Impero».
Vi rendete ben conto di quel che significa tutto questo? Il fatto,
cioè, che questo linguaggio inaudito (voglio propriamente dire: non più
udito da secoli o da millenni) sia contemporaneo del bolscevismo? E fino
a qual punto (appoggiato più o meno alla forza del Nazismo, e ad
altre), esso illumini di cruda luce le antitesi e le profondità abissali
del nostro tempo? Né crediate si tratti di mera «religiosità» o di flebile «legittimismo», ché vuol essere invece l’eco di cose immensamente più profonde ed antiche: «Imperialismo pagano» è infatti il nome che gli dà il suo stesso autore.
In luogo dunque di «evoluzione» e di «progresso».
Evola scorge la decadenza dal mondo tradizionale al moderno come
crescente oblio della vera spiritualità, perdita di contatto col
sovrannaturrale, caduta sempre più accelerata nel «tempo» e nella
idolatria della «storia». Né è cosa di ieri. «Le prime forze di
decadenza in senso moderno avrebbero cominciato a manifestarsi tra
l’VIII e il VI secolo a. C…. Un secondo e più visibile momento di
decadenza si ha con la caduta dell’Impero Romano e coll’avvento del
Cristianesimo». Poi, una ripresa di civiltà tradizionale,
nordico-ariana, col medioevo
feudale, imperiale, cavalleresco, ghibellino: «una terza fase si inizia
infine al tramonto del mondo feudo-imperiale, giungendo al punto
decisivo con l’Umanesimo e con la Riforma… Da allora in poi, il processo
sarà sempre più rapido, risolutivo, universale». Come ultime fasi, e
con aspetti sempre più catastrofici, ecco, dopo la società
capitalistico-borghese, la Russia e l’America. Sgretolatosi con l’ultima
guerra il blocco tradizionalistico dell’Europa centrale, «noi vediamo
che le forze volte a travolgere le ultime dighe si centralizzano in due
fuochi precisi… Ad oriente è la Russia, ad occidente è l’America… E’
cosa nota che la verità centrale del bolscevismo sia l’uomo collettivo,
la distruzione, nell’uomo, di tutto ciò che può aver valore di autonomia
e di personalità, che può costituirgli un interesse disgiunto dal puro
colletivo… Se la Russia ravvisa, secondo la parola di Lenin, nel mondo
romano-germanico il maggiore ostacolo per l’avvento dell’uomo nuovo,
essa vede invece nell’America una specie di terra promessa… Nella
grandezza smarrente delle metropoli americane ove il singolo – ‘nomade
dell’asfalto’ – realizza la sua infinita nullità dinanzi alla quantità
immensa, ai gruppi, ai trusts e agli standard
onnipotenti; alle selve tentacolari di grattacieli e di fabbriche… In
tutto ciò il collettivo si manifesta ancor di più, in una forma ancora
più senza volto che non nella tirannide asiatica del regime sovietico».
Queste ultime citazioni in cui si conferma quanto,
per mio conto, vado sostenendo da anni, mostrano uno dei punti
essenziali del mio accordo con Evola. Né è esso il solo – però tale
accordo non sembra estendersi oltre certi limiti. La mia difesa della
personalità è umanistica (sia pure spiritualistica, alla Goethe
e alla Bergson): ed Evola invece condanna l’umanesimo come una delle
forme già progredite ed irrimediabili di decadenza dall’ideale
tradizionale: «L’individualismo moderno è la prima faccia dell’umanismo…
Individualismo, come pretesa prevaricatrice di un Io, che è
semplicemente quello mortale del corpo… Con la rivolta dell’individuo,
ogni coscienza del sopramondo è perduta. Allora resta come certa la sola
visione materiale del mondo… Alla scienza si deve la profanazione
sistematica dei due domini dell’azione e della contemplazione presso
allo scatenamento della plebe sui mercati d’Europa».
Quanto ci sarebbe da dire su tutto questo? In un intelligentissimo
articolo dedicato tempo fa alla mia corruzione del «demiurgo», Evola gli
ha rimproverato precisamente il suo umanesimo, consigliandogli di
andare oltre, di «indirizzarsi alla realizzazione di forme
effettivamente super-personali, di tendere ad una rinascita in una super
vita». Gli ha consigliato cioè, in parole povere, di tendere a farsi
Dio. Il che era stato già un’aspirazione di Papini. Ora, in Evola la
cosa è ben più seria, né io sono così sciocco da pigliare alla leggera, o
da fraintendere, quel che egli vuol dire. Rispondo solo, per ora,
alcune parole. Io considero il suo pensiero, e il movimento cui esso dà
luogo, come una cosa, non solo significativa del nostro tempo, ma seria e
importante, e vi simpatizzo sotto più di un aspetto: affine, nel suo
carattere di «spiritualità eroica», a quanto va di meglio nel Nazismo
«ghibellino» (quello, per intenderci, che richiama gli ideali guerrieri
ed ascetici dell’Ordine teutonico); accolto nello stesso seno del
Fascismo come uno dei suoi orientamenti possibili – io ravviso tutto ciò
un sintomo di confortante ripresa dell’Occidente, un’alta possibilità
di difesa dalla marea e dal disonore del materialismo russo-americano.
Lasciando da parte la questione metafisica – sul terreno storico un
ideale ci unisce: la Cavalleria: ma la Cavalleria non era solo
bellicosità, era anche generosità e pietà; in essa si realizzava
veramente quella «sintesi cristiana» di cui ha ben parlato Giuseppe
Piazza nei suoi studi critici sopra il Nazismo: ora, questo punto voi lo
dimenticate. Non solo di eroismo ma anche di bontà, di generosità, di
pietà il mondo contemporaneo
ha bisogno come del pane: se no, fra poco esso diventerà inabitabile,
l’atmosfera sociale irrespirabile. Si può essere eroici insieme e
pietosi, coraggiosi ed umani, volitivi senza avere sempre l’insulto
sulle labbra e la bava alla bocca. Ecco la sintesi cui mira il demiurgo.
Del resto se essa non si realizzerà, penseranno fra poco gli
scatenamenti di tutti contro tutti a darci retrospettivamente ragione.
Bisogna finirla con questa feroce antitesi di una nietzschiana morale di
signori opposta a una pretesa cristiana morale di schiavi: il fenomeno
cavalleresco è là per mostrarci la sintesi. A questa, il demiurgo
aggiunge poi ancora, per suo conto, due sublimi ingredienti: la poesia,
per trasfigurare magicamente la vita (senza menomamente «eluderla», come
teme Evola); la scienza per dominare la natura. Così munito (e senza
escludere la possibilità di altre armi), il demiurgo ha qualche speranza
di non venir messo completamente da parte, il giorno dell’assunzione
eroica e del giudizio divino.
* * *
Recensione di Rivolta contro il mondo moderno apparsa, a firma di F. Burzio, sul Corriere Padano del 28 settembre 1935, riprodotta nel numero 47 (luglio 2004) di Margini. Letture e riletture, periodico della Libreria Ar.
fonte: www.centrostudilaruna.it
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