di:
Quando parliamo della vita come della “mia vita”, aggiungendo che siamo liberi di disporre a piacimento di ciò che è “nostro”, in verità dimostriamo di non conoscere la reale disposizione dei fatti circa l’esistenza. È chiaro che se le cose stessero come pensiamo, ossia che ciò che siamo o possediamo sia “nostro”, potremmo cambiare a piacimento il nostro corpo con un semplice atto della volontà, prevedere i pensieri che faremo, in modo tale da gestire secondo ciò che più ci fa comodo le varie esperienze della “nostra” vita. È ben evidente, però, che non è così che stanno le cose: in realtà ci ritroviamo ad essere legati ad una vita che non possiamo considerare estranea a noi stessi, ma che al contempo non possiamo identificare con un nostro deliberato atto di volontà.
Portando alle logiche conseguenze questo
ragionamento, saremmo tentati di accogliere la concezione paventata da
molta parte della filosofia esistenzialista, della Geworfenheit,
ossia di un assurdo trovarsi “gettati” nel tempo, all’oscuro circa la
nostra provenienza e destinazione, coinvolti in una vita, con le sue
annesse responsabilità e tragedie, che non abbiamo richiesto, ma che in
ogni istante si presenta come una sfida, come un bivio, per cui ne va di
noi stessi. «Non siamo realmente noi se non quando, mettendoci di
fronte a noi stessi, non coincidiamo con niente, nemmeno con la nostra
singolarità» affermerà molto lucidamente Emil Cioran, nella sua opera dall’esplicativo titolo La caduta nel tempo.
IL MITO DI SISIFO.
A questo punto la domanda del nichilista consapevole, dell’uomo che ha avvertito su di sé l’assurdità della sua condizione, sfocia nell’estrema formulazione fatta da Albert Camus ne Il mito di Sisifo: «la sola domanda, filosoficamente sensata, che resta è se Sisifo debba uccidersi o no». Ma al quesito di Camus risponde già il Sartre de La nausea, asserendo che in fondo anche il suicidio è insensato, in quanto neanche la morte porrebbe fine all’assurdo di esistere: di esserci stati. Del resto – aggiungiamo noi – il fatto di esserci, di essere in vita, di esistere con l’impossibilità del contrario, può già dare, nel bene o nel male, in chi sia maggiormente sensibile alle questioni metafisiche, il vago presentimento di essere in qualche modo coinvolto in una enigmatica vicenda: quasi in un’impresa da portare a compimento.
Dalle sabbie mobili di una siffatta
situazione ontologica, in Occidente, non ci trae in salvo nemmeno la
fede religiosa. Il cattolicesimo infatti, al pari del pensiero
filosofico occidentale moderno, nel porre il principio della vita e
della coscienza, non va oltre la nascita fisica. Certo, ammette un
intervento creativo divino, ma, per chi non si accontenti delle
spiegazioni di carattere religioso, ciò non cambia la situazione di
oscurità che precede la nascita. Non è così nelle religioni e nelle dottrine metafisiche orientali,
le quali ammettono una preesistenza alla vita terrena, condizionata da
una precisa relazione di cause ed effetti – in alcuni casi da una
deliberata scelta – fra l’ente esistente in sede pre-natale e l’essere
terreno.
PLATONE E LA PREESISTENZA DELL’ANIMA.
Per trovare una concezione simile in Occidente, bisogna risalire a Platone:
sua è la tesi in forma di mito secondo cui ogni anima dopo la morte
torni alla stella da cui era discesa. Del resto era diffusa presso gli
antichi Greci l’idea che dal Cielo (Οὐρανός / Ouranós,
corrispondente al Váruṇa vedico), stante a rappresentare l’ordine
invisibile, trascendente, eterno ed intellettivo del cosmo, originasse
quel profluvio di anime e monadi spirituali che scendeva nell’Antro
Cosmico a fecondare i germi terrestri infondendo vita e intelligenza
alla materia informe ed inerte. Allo stesso ordine di idee appartiene
l’antica dottrina dell’Iran zoroastriano che vorrebbe le anime dei
nascituri inviate nel mondo materiale da uno spirito guardiano (fravaši) per ordine del supremo dio Ahura Mazdā al fine di combattere la battaglia del bene contro il male, essendo la fravaši una sorta di doppio trascendente della persona, preesistente all’individuo pur essendone parte integrante.
ASTROLOGIA IN DANTE.
Simile
è l’idea cristiana dell’“angelo custode”. Del resto il cristianesimo
antico e medievale era a conoscenza della pre-esistenza dell’anima:
prova ne è quanto affermato da Dante nel Convivio circa la “nobiltade”
di un essere, che – dice il Poeta – può manifestarsi terrenamente con
specifiche virtù, da considerarsi come effetti la cui causa risiede nei
Cieli. Ciò implica una complessa teoria antropogenetica ricca di nozioni
astrologiche. La situazione astrale è dunque responsabile – trattasi,
ovviamente, di cause seconde – della differenza e del maggior grado di
virtù (intendendosi il termine “virtù” non nel consueto senso moderno
moralistico, ma soprattutto in quello arcaico di energia e potenza
innate) presenti in un uomo, che vanno a costituirne la nobiltà.
Dunque, se ancora oggi le vecchie zie ricordano ai bambini il loro segno zodiacale, qualche motivo c’è; peraltro molti Papi del Medioevo
e del Rinascimento ebbero a corte un Archiatra pontificio, che oltre
che medico era anche astrologo. Allo stesso modo la dottrina hindū
dello svadharma riconosce agli esseri di possedere una “natura
propria” e di avere in sé la propria ragion d’essere trascendente ed
immediata, il proprio destino, la parola “destino” non designando altro
che la vera ragion d’essere di un ente, non certamente qualcosa di
separato da ciò che un essere è e dalla sua azione. Verum ipsum factum,
così designava il divino agire cosmico Vico, che di questa nozione fu
latore presso i moderni dell’’antichissima sapienza degli italici’.
IL DÁIMON PERDUTO DELL’OCCIDENTE.
Il mondo moderno ha
invece scelto proprio la via opposta: la via di una sistematica
trascuranza della “natura propria” di ogni essere, la via
dell’arrivismo. L’ideale dei nostri contemporanei dunque non è più
quello del divenire ciò che si è, del Gènoio hòios éi: “Divieni ciò che sei!”, bensì quello del self made man: dell’uomo costruitosi artificiosamente, del parvenu, il quale si applica ad ogni sorta di attività, casualmente, e con intenti affatto utilitaristici. A
dire la verità una certa idea ‘innatista’ si è fatta strada in tempi
relativamente recenti a seguito dell’affermarsi del darwinismo e oggi
continua a sussistere con i suoi epigoni. Quante volte ci sarà
capitato di essere edotti circa un’“area cerebrale della generosità”, o
che è stato trovato il “gene dell’intelligenza”. Ma ciò è abbastanza
riduzionista, e rischia di confondere causa ed effetto: un po’ come
quando ci si sente in dovere di criticare l’Astrologia ricorrendo a
qualche nozione di Astronomia e Fisica, senza capire che si parla di
qualcosa di ben diverso, trattandosi di modi di vedere perfettamente
indisturbati l’uno dall’altro.
IL DÁIMON DI HILLMAN.
Eppure, nella storia del pensiero moderno, in ambito psicanalitico, è da ravvisarsi un cambiamento di rotta – si potrebbe parlare di una rettificazione – grazie all’opera di James Hillman, fondatore della psicologia archetipica, il quale ha introdotto il concetto di «vocazione» quale cuore pulsante dell’attività psichica. Secondo Hillman, vivere implica l’assunzione di un destino consistente nel divenire ciò che si è, secondo un progressivo rivelarsi del dáimon, cioè di quel quid pre-natale che esiste in ciascuno di noi, caratterizzandoci, e che contrassegna i nostri vissuti e i nostri agiti in modo irriducibile.
L’aderenza al dáimon va
ricercata e alimentata, per rendere davvero autentica la nostra
esistenza. In questo senso siamo chiamati – secondo Hillman – a
decifrare il ‘codice della nostra anima’, essendo già presente
nell’individuo bambino l’intera forma del destino di un uomo, che, però,
deve dispiegarsi ed essere vissuta nel tempo, sino a giungere a
concretizzarsi quale immagine viva, enérgheia, opera d’arte, nell’individuo anziano, nel vecchio. «Sequere deum», dicevano gli stoici; detto ripetuto nei suoi Mémoires e magistralmente posto in atto da Giacomo Casanova. E Cicerone insegnava che un vir ha il dovere (officium)
di conoscere la propria natura e diventarne la maschera. Non a caso
nelle antiche società umane i vecchi sono stati usualmente considerati
quali sciamani, grandi vecchi, saggi.
ASSENZA DI CONTINUITÀ GENERAZIONALE.
Ciò,
tuttavia, poteva avere un senso nelle antiche società tradizionali, in
cui l’uomo viveva in conformità con le leggi cosmiche e fedele alla sua
propria natura; ben poco senso avrebbe il rispetto e la venerazione
degli anziani nella nostra epoca, in cui la continuità generazionale è
stata minata alla base dai vari fenomeni disgreganti presenti nelle
ideologie moderne: si pensi al risibile ma diffusissimo fenomeno del «giovanilismo»,
vera e propria piaga della società occidentale, per cui anziani e meno
giovani, incuranti dell’età che passa e privi di qualsiasi rapporto con
la saggezza, ostentano modi di pensare e di vivere scimmiottanti le
giovani generazioni, le quali proprio per questo si vedono sempre più
lasciate allo sbando da chi invece avrebbe dovuto dispensare loro
consigli utili per assurgere alla maturità.
I nostri, del resto, sono tempi in cui il mondo sembra vivere in una assoluta mancanza di punti di riferimento, per cui anche il Papa ha
annunciato la disponibilità di stabilire una data fissa per celebrare
la Pasqua, rinunciando all’essenziale rimando simbolico-astrologico
secondo cui la domenica di Pasqua coincide
tradizionalmente col primo plenilunio dopo l’equinozio di primavera.
Certo, è pur vero il detto secondo cui il Sapiente domina gli astri, ma
appunto solo il Sapiente, colui che ha conseguito la translatio ad deos, o la jivanmukti,
per utilizzare il vocabolo sanscrito, ma gli altri uomini soggiacciono
ancora alla legge di causa-effetto, ed i loro atti sono sempre in
relazione con una serie di cause e conseguenze – anche astrologiche -,
nondimeno essi hanno bisogno di punti di riferimento, di ‘stelle
polari’.
LA LIBERTÀ ASSURDA.
In
Occidente, col pretesto della libertà, quella libertà che a ben vedere
si rivela essere “assurda”, – come affermò Camus – in quanto insensata,
l’uomo contemporaneo credendosi indipendente da qualsiasi influenza,
misconoscendo i rapporti sottili che legano ogni parte del cosmo
vicendevolmente, per farne un Tutto ordinato, ha finito per scavarsi la
fossa da solo, condannandosi alla solitudine cosmica e al nonsense
esistenziale, dinanzi ai quali Pirandello nel suo celebre Fu Mattia Pascal fa
esclamare in modo eloquente al protagonista: “Maledetto sia
Copernico!”, in quanto la rivoluzione copernicana e ancor più il
successivo progresso scientifico-cosmologico, oggettivizzante ed
antiumanistico (diremmo quasi antiumano!), avevano ormai destituito di
senso il mondo.
IL DISINCANTO DEL MONDO.
Del
resto l’orizzonte metafisico è totalmente assente nell’intellettualità
occidentale moderna, e questa è una grave pecca, che la dice lunga su
quanto l’eccessiva settorializzazione del sapere sia giunta oggigiorno
ad un avanzato stato di frammentarietà e di inorganicità che compromette
una reale e complessiva conoscenza dell’Esistente. Per la verità, già
un Goethe,
uomo di cultura universale, e perciò poco avvezzo ad ogni forma di
riduzionismo scientista, poté ravvisare nella scienza del suo tempo,
rappresentata dalle teorie di Newton, una «pericolosa
astrazione aberrante». Non senza ragion veduta, dunque, quella
presentata dalla moderna cosmologia scientifica è stata definita da più
parti come una tra le interpretazioni del mondo più aride e povere di
senso, e l’uomo moderno «occidentalizzato» come l’unico uomo nella
storia dell’umanità a trovarsi a vivere fuori dal contesto di un
racconto cosmogonico.
Sono queste certamente alcune delle cause del fenomeno ravvisato da Max Weber del «disincanto del mondo» (l’Entzauberung der Welt di cui avrà a dire ne La scienza come vocazione,
1919), ossia quel processo di emancipazione della civiltà occidentale
da una concezione sacrale della vita, che ha visto il passaggio da un
mondo feudale-tradizionale ad una società industriale attraverso
processi di intellettualizzazione, razionalizzazione e tecnicizzazione,
con il conseguente abbandono di quelli che Weber definisce «mezzi
magici» – ossia quel grande complesso di riti, credenze, costumi che
caratterizzarono sino agli albori della modernità la società europea in
una concezione religiosa dell’esistenza, e che più che opprimerla come
vorrebbe la vulgata laicista, conferirono ad essa un orizzonte di senso.
Del resto, non senza ragione l’essere umano fu definito dal Cristo:
«sale della terra» (Mt 5, 13), in quanto unico fra gli esseri viventi
ad essere dotato di un’autocoscienza tale da fungere da coscienza
cosmica, nella quale l’Assoluto stesso si automanifesta. «Ma se il sale
perdesse il sapore, – riprendeva il Salvatore – con che cosa lo si potrà
rendere salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e
calpestato dagli uomini».
Oggigiorno, perduto qualsiasi
legame d’ordine sapienziale con il cosmo ed incalzato dai ritmi del
lavoro in città, l’uomo moderno è andato sempre più emancipandosi da una
vita attenta al passaggio delle stagioni e alle tradizioni ad esse
collegate. Come il giovane ‘Ntoni della prosa verghiana de I Malavoglia,
l’uomo dei nostri giorni vaga come uno sradicato, senza più stelle
polari da seguire per i «nonluoghi» della postmodernità, ormai privo di
quella dimensione ciclica del tempo propria delle civiltà legate ai
ritmi della terra e all’alternarsi delle stagioni e delle costellazioni;
uno spettro pare, delocalizzato in un purgatorio altro, imprigionato in
iperspazi alieni quanto la sua famiglia d’appartenenza.
sintesi eccezionale del procedere storico che ha portato l'uomo moderno quasi totalmente svuotato ed esautorato da quei punti di riferimento più impliciti nella sua cultura contadina e guerriera prima che esplicitati in un assetto culturale e cosmogonico probabilmente esistente in passato nei popoli che hanno dato vita all'europa moderna, cancellato sia dal tempo sia dalla soverchieria delle religioni monoteiste, ma non completamente, in quanto ancora oggi specie se si viaggia verso nord, il cristianesimo è assolutamente arricchito inconsapevolmente da persistenze primigenie (mia nonna quando spaventata ed accadeva raramente, non invocava ne Dio ne il Cristo bensì Odino) ad esempio nelle chiese svedesi i simboli del cristianesimo sono rappresentati sui pavimenti mentre quelli delle credenze antiche sono in alto, stessa cosa in modo non totalmente dissimili accade nei libri di pietra che sono le cattedrali gotiche. Penso comunque che la laicizzazione e il distacco dai valori significanti e simbolici descritti nell'articolo abbia come ogni caduta verso il buio un effetto assolutamente positivo cioè il successivo recupero cosciente di detti valori e il portarli sempre più a un valore conscio da quello inconscio nel quale col tempo si erano sedimentati, ragione principale della effimera e transitoria, benchè imponente e di lunga durata vittoria delle religioni monoteiste. A suffragio di questo è banale ricordare come sia aumentato negli ultimi 30 anni in modo esponenziale l'interesse verso l'esoterismo di cui questo blog è a suo modo testimone, fenomeno in parte dirottato verso una new age degenerata, ma anche spesso al contrario serio e importante lavoro di molti. I prossimi 30 anni saranno caratterizzati dallo scontro mortale fra queste due visioni e dalla nascita di quell'embrione che nel prossimo secolo porterà alla nascita di una nuova classe dirigente, lontana anni luce dallo schifo odierno, caratterizzata da quella consapevolezza di cui abbiamo solo un vago ricorso nell'età del'oro descritta nelle letterature antiche.
RispondiEliminajj
Spero che questo schifo venga sconfitto...come dici tu! :-)
Elimina